PREZZO: €21,00
BROSSURA | PP. 384 | COLLANA K ESSAY
Traduzione dal tedesco
Alice Rampinelli
Uno strepitoso affresco mondiale dell’anno che segna il destino d’Europa
1517 è un libro inebriante che offre una prospettiva insolita su quello che è l’anno della Riforma. Schilling però non si concentra su Wittenberg, anzi accompagna il lettore in un viaggio emozionante attraverso il mondo intero, dall’Italia e dalla Spagna fino all’Impero ottomano, alla corte imperiale cinese senza dimenticare l’America, l’Impero azteco e gli Oceani. Si impara moltissimo sugli eventi e sui luoghi dentro e fuori le frontiere europee, cogliendo come territori lontani siano stati interconnessi tramite percorsi commerciali, movimenti di denaro, invenzioni scientifiche, libri e scoperte di viaggiatori e avventurieri. Certamente è uno dei contributi più originali sull’anno cardine della storia europea…
Libro intelligente, ben scritto e coinvolgente LITERATUR SPIEGEL
Forse il libro più emozionante e aggiornato su questo periodo DIE WELT
Arricchente, emozionante e una grande lettura! DAS MAGAZIN DER FÜNF PLUS
Un contributo notevole. ZEITZEICHEN
Incredibile, divertente e altamente istruttivo. NÜRTINGER ZEITUNG
Appartiene ai libri importanti apparsi nell'anniversario della Riforma: un invito a guardare le cose in una prospettiva diversa, ponendosi anche altre domande. BR2 DIVAN
Una panoramica emozionante. NÜRNBERGER NACHRICHTEN
Altamente competente e istruttivo. DEUTSCHLANDFUNK BÜCHERMARKT
AUTORE
Heinz Schilling è professore emerito di Storia moderna dell'Europa all'Università Humboldt di Berlino ha insegnato all'Università di Giessen e alla Humboldt Universität. La sua acclamata biografia su Martin Lutero (in Italia edita da Claudiana) è stata tradotta in 10 lingue. Sue opere sono apparse anche per l'editore Il Mulino.
RASSEGNA E APPROFONDIMENTI
StoricaMENTE, Angela De Benedictis
INDICE
Prologo
1517 - L’anno epocale visto con occhi nuovi
I. Due imperi mondiali, una terza Roma e tumulti contro repressioni e abusi
1.
Autunno castigliano
L’avvicendamento dei monarchi spagnoli e la visione di una supremazia asburgica nella cristianità
2.
Lo Stato premoderno dei principi e il brontolio dei sudditi contro le nuove costrizioni
3.
Primavera ottomana.
Il trionfo sul Nilo, nella penisola arabica e sulle coste dell’Africa settentrionale
4.
Un viaggio coraggioso nell’altra Europa
Dalla Polonia e dalla Lituania alla corte moscovita
II. La pace e la stabilità del denaro
1.
La pace moderna sotto assedio
Querela pacis / Il lamento della pace nella mischia di potenze e dinastie
2.
Una teoria monetaria copernicana dal «più remoto angolo della terra»
III. L’europa e il resto del mondo
1.
Mondi vecchi e nuovi
2.
L’Estado da Índia portoghese e l’accesso al Regno di Mezzo
3.
Marzo 1517, gli spagnoli nello Yucatán; primo incontro con una civiltà americana progredita
IV. Il Rinascimento e una nuova conoscenza del mondo
1.
«Le genti calicutiche» e il rinoceronte Ulisse
L’oltremare in Europa
2.
Una cultura nel segno dell’antichità
3.
La simultaneità della non simultaneità e l’Umanesimo cavalleresco nell’Europa centrale
4.
Le donne del Rinascimento
V. Paure collettive e desiderio di sicurezza
1.
Miracoli, magie, streghe e demoni
2.
Ebrei e musulmani, pericolo per la «purezza» cristiana
VI. Il Papa a Roma
sovrano italiano e pontifex universale
1.
Urbi et orbi
Roma nelle mani del papa de’ Medici
2.
La riforma della cristianità nella sua testa e nei suoi membri
3.
Una pace europea per la guerra contro gli Ottomani
4.
Lo splendore del Rinascimento e le rovine di San Pietro
5.
1517
L’anno del papa de’ Medici
VII. Il monaco di Wittenberg
Ex oriente lux, l’alba del protestantesimo ai confini della civiltà
1.
Wittenberg, 1517
Lo sviluppo «ai confini della civiltà»
2.
Il monaco agostiniano e la paura tedesca della salvezza eterna
3.
31 ottobre: 95 tesi contro le indulgenze inviate alla gerarchia ecclesiastica per l’«esplorazione della verità»
4.
Una riforma evangelica al posto di una frivola critica alla Chiesa senza conseguenze
Epilogo
1517 – Anno miracoloso e preludio della modernità?
PREZZO: €13,50
DATA USCITA: MAGGIO 2012
BROSSURA | PP. 168 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL RUMENO BRUNO MAZZONI
CORRIERE DELLA SERA (3/8/2012)
Scoperte Tradotto in Italia lo scrittore mitteleuropeo morto a trent'anni. Un parente dei grandi del '900
La ricerca di un senso dell'esistenza attraverso l'infanzia
di EMANUELE TREVI
Dal punto di vista artistico, letterario, filosofico, la ricchezza del Novecento ha qualcosa di prodigioso. Si può nutrire la sensazione di conoscere, almeno di nome, le opere più importanti e i loro autori, le poetiche, le circostanze, le mode. Ma poi, ecco un nuovo astro che si aggiunge al già affollatissimo firmamento, e permette di disegnare costellazioni ancora impensate.
Mai tradotto in italiano, il rumeno Max Blecher, nato nel 1909 e morto nel 1938, pur non raggiungendo nemmeno il traguardo dei trent'anni è stato capace, lottando contro il tempo e il fato avverso, di dare forma a un mondo unico e inconfondibile.
Si erano accorti del suo valore corrispondenti della statura di Breton, Gide, Heidegger. Di famiglia ebraica abbastanza benestante (il padre era un mercante di porcellane) Blecher aveva trascorso un breve periodo a Parigi, dove era andato per studiare medicina. Sedotto da Breton, aveva aderito al Surrealismo. Spietata ed implacabile come una sentenza capitale, piombò sulla testa dell'aspirante medico e giovane poeta la diagnosi di una malattia gravissima, la tubercolosi spinale. Dopo varie permanenze in sanatorio, Blecher tornò in patria, nella cittadina di Roman, dove visse gli ultimi anni senza mai abbandonare il letto.
È in queste terribili condizioni che venne alla luce un'opera esigua dal punto di vista della quantità,ma straordinariamente intensa, punteggiata di sorprendenti illuminazioni metafisiche, capace di insediarsi stabilmente nella memoria dei lettori grazie a un tono di verità ed intimità davvero difficile da raggiungere.
Dopo la riscoperta, i libri di Blecher sono stati tradotti nelle maggiori lingue europee, e non si è esitato ad accostare il nome di questo sconosciuto a quelli di Kafka e Bruno Schultz.
Non si tratta di un'esagerazione priva di utilità e fondamento, come spesso accade quando si azzardano questi paragoni con scrittori immensi.
Apparsi nel 1936, gl i Accadiment i nell'irrealtà immediata (ora pubblicati da Keller) stanno lì a dimostrare che Blecher è uno scrittore di prima grandezza, non indegno del confronto con i più illustri dei suoi contemporanei. Simile a Kafka, in Blecher, è il ferreo controllo razionale e formale di una prosa che non esita, d'altra parte, ad avventurarsi nei più fastidiosi ed insoliti meandri della coscienza e dellamemoria. E come Bruno Schultz, lo scrittore rumeno è stato capace di fare dell'infanzia il luogo supremo della conoscenza del proprio destino e della natura delmondo. Più che come un libro di ricordi più omeno felici, allora, questi Accadimenti andranno letti come un paradossale «discorso sulmetodo», fondato sulla capacità del bambino di entrare e uscire dalla propria identità, facendo ricorso a quella che Blecher definisce «una lucidità più essenziale e più profonda di quella del cervello».Ma se da un lato c'è un soggetto che conosce mantenendosi sempre in precario equilibrio tra il sogno e la veglia, l'oggetto concreto e la sua deformazione fantastica, dall'altro c'è un mondo sempre pronto a retrocedere nell'«irrealtà» suggerita fin dal titolo. Come se la sostanza stessa del reale non fosse che un enigma, un «tutto» che, forse confidando nell'estrema sensibilità e capacità ricettiva del bambino, «implora una soluzione».
Ma se il bambino non smette di indagare l'enigma che gli offrono le cose, la sua curiosità è tutt'altro che astratta, frutto di un'energia mentale disincarnata. Al contrario, l'originalità di Blecher sta nel fatto che il protagonista degli Accadimenti è attratto eroticamente da tutto ciò che lo circonda. «Per quanto lontano rovisti tra i ricordi nell'abisso della mia infanzia», confessa lo scrittore, «li trovo legati alla conoscenza sessuale». Il sesso insomma non è quella scoperta che segna, come una linea d'ombra da varcare una volta e per sempre, la fine dell'infanzia, ma una sua componente essenziale, al pari delle paure della notte e delle prime amicizie. E questa coraggiosa modificazione di uno schema narrativo classico ha una sua importantissima conseguenza filosofica, permettendo a Blecher la rappresentazione di un'infanzia priva del complesso edipicoma satura fino all'inverosimile del desiderio e delle sue metafore.
Blecher è un vero scrittore, perché il suo mondo non è il risultato di un'addizione di ricordi ed invenzioni, ma un tutto organico, nel quale ogni elementomisteriosamente si corrisponde e si assomiglia. Come un archeologo, l'uomo adulto che scrive si cala nel sottosuolo dell'infanzia riportando alla luce frammenti di accecante verità. Al limite estremo della consapevolezza, vediamo i simboli del desiderio confondersi indistricabilmente con quelli della caducità e dell'artificio, in un nodo di sensualità e morte che non saprei se definire con più esattezza barocco o surrealista. E tra tutte le immagini di questo libro così memorabile e sottilmente perturbante, la più forte è quella di una statua di cera che si scioglie nel fuoco, con «le gambe livide e belle che si avviticchiano in aria e afferrano tra le cosce una fiamma vera che ne brucia il sesso».
Ma se una volta poteva anche esistere la parola che esprimesse il significato di questa immagine femminile, oggi di quella parola non esiste che il «ritmo lontano»: il suono fragoroso ma indistinto dell'«irrealtà».
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: GENNAIO 2014
BROSSURA | PP. 192 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO SONIA SULZER
Ai margini della ferita, Keller, pp. 192, €14,50
IL MESSAGGERO, 1/2/2014
L'epica dolente del Sud Tirolo
Non pensavamo si potesse rappresentare il dramma secolare del Sud Tirolo col dinamismo di una narrazione controllata, compatta, moderna, senza infingimenti, che descrive gli esiti della politica di divisione operata dopo la ricostituzione della Repubblica Austriaca nel 1955, culminata nella deriva terroristica del BAS. La società italiana, con i suoi limiti, offre delle risorse emotive e culturali capaci di generare un'epica dolente della vita. Paul ed Herbert oltrepassano gli steccati, riparano i loro vissuti simmetrici e opposti. Il calcio richiama verso la Milano di Mazzola. Il cinema è luogo di evasione dove l'amore tra un tedesco e una italiana diventa possibile al riparo del sogno.
(Andrea Velardi)
CORRIERE DELLA SERA
(ED. TRENTINO E ALTO ADIGE) 2/2/2014
Ai margini della ferita
«Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: "Mostrami la lingua!" Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellinoa serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: "Adesso gli tagliamo la lingua". Io non oso ritirarla, l'uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All'ultimo momento ritira la lama e dice: "Oggi no, domani". Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca...»
Canetti, sì Elias Canetti, in La lingua salvata. La lingua appunto. Questa è la prima indelebile immagine che mi desta il bellissimo libro di Sepp Mall Ai margini della ferita. Ai margini di ferite che si rimanrginano, rimangono sempre come tracce indelebili nel tessuto di molte vite. E le ferite sono il solco fra le due parole che in tedesci significano lingua: Zunge e Sprache. Ferite tra chi non riesce a comunicare, a comunicarsi. Barriere, confini costruiti anche dalle lingue e dalla diversa sensibilità che le lingue creano e sottendono. Il libro esce neò 2004 per i caratteri di Haymon Verlag con il titolo di Wundränder. L'editore Keller riprende, traduce il libro situandolo nel progetto Confini. Cito dalle osservazioni di Keller a proposito della collana: «Confini è un sentire, una traccia che attraversa le due collane della casa editrice, VIE e PASSI, seminando alcuni titoli ogni anno, a partire dal 2014 e fino al 2018, che raccontino attraverso la letteratura europea - e non solo -la Prima guerra mondiale. Cosa è accaduto e ciò che ancor oggi è rimasto sospeso». E ancora perché Confini? «Perché - prosegue -i confini divennero campo di battaglia, perché dopo di allora mutarono radicalmente, perché i confini politici disintegrarono quelli geografici o violentarono quelli culturali ed etnici e linguistici».
E di storie di frontiera si tratta in questo romanzo. Mi sono riferita anche alla prima edizione in lingua tedesca perché lì nel risvolto di copertina si trova un breve accenno alla base "storica" del racconto, la lotta per la libertà sudtirolese. Alla fine della prima guerra mondiale il Sudtirolo, contro la volontà dei suoi abitanti di lingua tedesca, viene dichiarato italiano. Da qui la migrazione di massa di cittadini italiani da altre province, la riduzione dei sudtirolesi di lingua tedesca a una minoranza, l'italiano che diventa lingua ufficiale, l'abolizione dell'insegnamento della lingua tedesca nelle scuole. Frustrazioni che sboccano, appunto negli anni Sessanta nei quali il libro si situa, negli attentati, nelle tristemente famose notte dei fuochi. Cert queste poche notizie possono far rientrare il lettore nella tematica del romanzo, ma anche a mio parere (come ha fatto l'editore Keller che le ha tralasciate), non è solo il racconto di un periodo storico che Sepp Mall vuole portare. Altri hanno usato questa linea: Zoderer nel suo riuscitissimo Die Walsche, sicuramente letteratura e, forse, sottolineo i forse, Melandri in Eva dorme. Certo le vicende della lotta sudtirolese sono così poco note e le varianti tanto numerose che ogni cenno di questa vita a due - due lingue, due culture, due mondi di confine - può incuriosire i lettori. Nel romanzo di Sepp Mall, le ferite profonde sono iscritte nella memoria familiare e consegnate, come cicatrici permanentei, al racconto, al silenzio delle vittime, ma con una differenza: il desiderio, quello di Mall, di interrogare la storia da una distanza che conosce i trabocchetti della memoria. Un'urgenza di allontanarsi drasticamente da un registro di osservazione solo tragico, da derive sentimentali. Quello che ne risulta è letteratura, non più come trasfigurazione astratta della Storia, ma come centro della narrazione.
Forse a questo punto mi pare il caso di tracciare, almeno a brevi linee, la storia di questa storia di due famiglie, una storia situata alla fine degli anni Sessanta. Prima famiglia quella di Paul, un ragazzo di dodici anni. «Suo padre - si legge nella prima pagina del romanzo - si è dissolto nel nulla, così, da un giorno all'altro». Paul non riesce a capire come e perché sia stato arrestato. La madre piange lacrime inconsolabili che ingorgano il vissuto di tutta la famiglia. Cosa è veramente accaduto e perché, si chiede Paul. L'amico Herbert ne sa molto di più. Ma il mondo degli adulti non è facile da capire per un bambino. Poi c'è la scuola, il calcio, tante cose, le prime sigarette, i baci rubati al buio del cinema, baci con una ragazza italiana. Chissà cosa succederebbe se il padre, in quel periodo in prigione a Milano, venisse a saperlo. E anche Maria, la sorella si vede con un soldato italiano. Paul, racconta l'autore, appoggia il righello sulla cartina e moltiplica i centimetri per la cifra della scala graduata in fondo a sinistra. «Suo padre - prosegue Mall - si trovava a venti milioni di centimetri di distanza». Alla fine il padre torna, ma è cambiato, diverso, silente.
La seconda famiglia proviene da un maso di montagna. La figlia, Johanna abbandona il maso assieme al fratello Alex. Ad Alex mancano le parole. La sua è «una lingua incatenata». Una persistente balbuzie lo allontana da tutti. Sua sorella che lo protegge, difende, traduce. E lo poarta via, in città dove Alex lavorerà come elettricista. Maria è infermiera. Nuove conoscenze, nuovi mondi, un quartiere di periferia che chiamano Harlem, anche se noi lo si chiamava Shangai, portano cia Alex alla sorella e, forse a se stesso. La loro avventura termina tragicamente con la morte di Alex dovuta all'esplosione di una bomba.
«Chi era Alex?» si chiede Johanna, veramente un bombarolo, un attentatore e dove sono finite le parole che lui non sapeva pronunciare, che non fosse solo la lingua l'organo malato di Alex? Paul, Johanna, Maria, Alex, l'amico di Paul, Herbert, Erika, amica di Maria e figlia del datore di lavoro di Alex, probabilmente il suo mentore, sono questi i personaggi che animano il libro.
Seppp Mall nella sua abilità di narratore collega le due famiglie: il padre di Paul si suicida e cade proprio dove lo trova Maria che passeggia con il suo cane. Paul finisce in ospedale dove incontra Johanna che è lì come infermiera di notte. E Johanna accarezza la testa di Paul come aveva fatto con Alex, senza parole. Segni, ferite intrecciate in più vite. Ferite come nel titolo o come negli alberi che Alex intagliava nella foga di comunicare. «Cerco gli alberi di Alex, cerco i segni dei tagli, voglio sapere se le ferite si sono rimarginate» dice la sorella Johanna. E colore dominante è il blu dei cieli, della nostaglia dello struggimento: «Sembrava che il blu del cielo - questa volta è l'io narrante - fagocitasse i bianchi piumini delle nuvole, sminuzzandoli pian piano, senza saziarsene mai». E del dolore, del rimpianto, delle mancanze, non ci si sazia mai. Certo questa è letteratura. La storia si fa leggere anche attraverso vicende, contesti diversi, confini diversi. L'impulso della letteratura prende luogo dalla scrittura come resoconto, senza compromessi, tenendo però conto delle proprie radici ideologiche e delle colpe dei padri. Brunamaria Dal Lago Veneri
VITA TRENTINA 7/2/2014
IL ROMANZO DI SEPP MALL
AMBIENTATO NELL'ALTO ADIGE
DEGLI ANNI '60
L'incomunicabilità del confine
di Paolo Piffer
C'è qualcosa che va oltre le storie raccontate. Che travalica i luoghi e le situazioni. "Ai margini della ferita", romanzo dell'altoatesino Sepp Mall che l'editore Roberto Keller ha appena pubblicato nella traduzione di Sonia Sulzer a dieci anni dalla prima edizione in lingua tedesca, è ambientato in Alto Adige, durante gli anni Sessanta, quelli delle bombe separatiste. In un montaggio alternato il romanzo mette in campo le storie di due famiglie tedesche. In una il padre viene arrestato in quanto terrorista e poi liberato perché delatore, avendo fornito agli inquirenti elementi ritenuti sufficienti per smascherare la rete clandestina. Ed è così bollato come traditore. Nell'altra la sorella vede il fratello allontanarsi sempre più da lei, sino a finire dilaniato dalla bomba preparata per far saltare un monumento agli alpini , simbolo dell'"occupazione" italiana del Sudtirolo. Dette così, succintamente e moto schematicamente, sono storie che per chi non conosce la situazione altoatesina di quegli anni aprono scenari turbolenti e inediti, di scontro etnico ai confini di un'Italia in pieno boom economico. Un panorama balcanico ricomposto nel corso del tempo grazie all'Autonomia, attutito nelle sue forme più crude anche se non completamente pacificato. Ma c'è dell'altro che fa trasparire la scrittura cristallina di Sepp Mall, 58 anni, scrittore italiano di lingua tedesca, insegnante, nato a Curon e residente a Merano. E che rende il lavoro un limpido esempio di letteratura e non solo uno spaccato di una realtà di confine, un mero ritratto sociologico tradotto nella forma-romanzo. È quel profondo senso di incomunicabilità che pervade tanti dei personaggi messi sulla scena, lo specchiarsi di un'umanità dolente e fragile incapace, pur nella profondità degli affetti, di aprirsi a se stessa prima ancora che agli altri. E se per Alex la separazione dalla sorella è fisica, segnata dalla balbuzie, quasi un'immagine che fa da schermo ai segreti che non può rilevare, nel padre di Paul è il mutismo che fa seguito al carcere, fino alle estreme conseguenze, il tratto distintivo di una lontananza palpabile. È nell'amicizia tra Paul, che sta forse, con una ragazza italiana, ed Herbert e in quella tra la sorella di Alex e Erika, compagna del bombarolo, che si intravedono i segni di una rinascita, per quanto dolorosa, segnata dalla fatica del vivere. Tanto che nel finale tutti questi elementi paiono ricongiungersi. E da lì ripartire per darsi almeno una speranza di futuro.
IL FATTO QUOTIDIANO, 8/2/2014
Alto Adige, le ferite del terrorismo
Il papà di Paul fa il falegname, poi viene arrestato e il ragazzino dice al suo amico Herbert che il padre "si era dissolto nel nulla, da un giorno all'altro". Alex e Johanna, invece, sono fratello e sorella. Hanno abbandonato la casa paterna e si arrangiano in città. Lui è balbuziente, fa una fatica enorme a parlare e la voce della sorella diventa anche la sua. La sera, quando si ritrovano, la felicità è "il tacere che colma senza lasciare vuoti". Alex salta in aria mentre prepara un attentato. Anni Sessanta in Alto Adige. La quotidianità di due famiglie autoctone viene strappata dalla lotta contro l'oppressore di Roma, contro l'assimilazione. Una parola tremenda, sanguinosa: terrorismo. Sepp Mall, scrittore italiano di lingua tedesca, ha scritto "Ai margini della ferita" nel 2004. Un romanzo che è una miniatura delicata e feroce allo stesso tempo, una sorta di letteratura di confine poco nota nel nostro Paese. A pubblicarlo ora è Keller editore di Rovereto che ha varato proprio un progetto chiamato "Confini", dedicato al centenario della Grande Guerra: 1914-1918, 2014-2018.
Fabrizio d'Esposito
LA STAMPA, TUTTOLIBRI 8/2/2014
La terra ferita vista dall'altra parte
Dopo l'Italiana di Zoderer: Sepp Mall, autore italiano di lingua tedesca che vive a Merano, racconta il Sudtirolo Anni 60, diviso dai muri invisibili di lingua, cultura, politica, weltanschauung attraverso lo sguardo candido di due ragazzini che s'incamminano verso l'adolescenza fantasticando sui dribbling di Mazzola e sulle figurine Panini, sui baci nel buio del cinema con le compagne di scuola, in un'Italia amabile e nello stesso tempo matrigna verso chi parla (e ragiona) tedesco. Ma anche vedendo genitori e parenti finire in galera (o peggio) per un'idea di patria diversa.
Con dolente pacatezza Mall racconta una generazione, più o meno la sua (è nato nel '55), in cui tanti italiani forzati hanno dovuto scegliere tra l'integrazione e una guerra partigiana di bombe, attentati, trame segrete, per annunciare al mondo che esisteva una minoranza orfana di una Mitteleuropa distrutta. Bruno Ventavoli
TRENTINO - 11/2/2014
Sepp Mall: parole "ai margini della ferita"
Gli anni dell'odio etnico in Alto Adige
Lo scrittore sudtirolese ora tradotto da Keller
Dieci anni dopo la pubblicazione, "Wundränder", il romanzo dello scrittore sudtirolese Sepp Mall, esce ora in versione italiana per i tipi dell'editore Keller di Rovereto, col titolo "Ai margini della ferita", traduzione di Sonia Sulzer. Una delicata storia di sentimenti, di speranze e di dolori, vissuta in due racconti paralleli che si intrecciano, senza incontrarsi, nella Bolzano degli anni Sessanta, scossa dalla sempre difficile convivenza tra popolazione sudtirolese e italiani immigrati, ma soprattutto dalla prima ondata di attentati dinamitardi ai tralicci dell'alta tensione. I protagonisti principali di queste vicende sono però alcuni ragazzini sudtirolesi, e gli eventi sono filtrati dai loro occhi. In una delle due storie l'io narrante è quello di Johanna, la sorella maggiore di Alex, materna e adorante, vera protettrice del focolare domestico, preoccupata sempre della sorte del fratelli, balbuziente e alle soglie di una maturazione difficile; nell'altra si narra di Paul e Maria, venuti dalle vallate a vivere con i due genitori in un caseggiato di Harlem, quartiere popolare italiano di Bolzano. Sia Alex che il padre di Paul e Maria moriranno, l'uno compiendo un attentato ad un monumento considerato simbolo dell'oppressione dello stato italiano, l'altro suicida per disperazione dopo essere stato coinvolto nei gruppi dinamitardi e aver subito una traumatica detenzione nel carcere di Milano, con il turpe sospetto di aver tradito i compagni. I ragazzini sanno e non sanno quello che succede, immaginano con la fantasia, ma la realtà si svolge per essi come uno spettacolo su cui restano interdetti, smarriti. Il loro mondo reale è fatto di scappatelle scolastiche, di giochi in cortile, di confidenze amorose e soprattutto di fantasie legate al calcio delle grandi squadre di serie A, ai campioni dello sport e a velleità di fuga, Milano, l'America... Quello che vivono Paul, Herbert, Stella, Maria (che accetta il corteggiamento di un soldato italiano, subendo per questo rimproveri in casa) insomma è l'iniziazione alla vita adulta, ma in un contesto duro, difficile, pieno di insidie e di incomprensioni a sfondo etnico che vengono dal mondo degli adulti, dal peso di un passato che non passa e di una storia che sta anzi per riaccendersi nel conflitto più che nella convivenza. Basti ricordare la "notte dei fuochi", con tutti i successivi avvenimenti. Ecco come Johanna racconta il proprio smarrimento davanti agli eventi: «Attentati alle caserme, ai binari, ai tralicci, queste erano le parole che cominciavano a circolare nelle conversazioni che sentivo in autobus, alla radio che di tanto in tanto facevo andare, o sui giornali appesi nelle edicole. Mi resi conto che c'erano persone tra noi che odiavano lo Stato, e che gli italiani erano considerati degli intrusi, ma capii anche tutto questo mi era estraneo, che era un mondo distante da me, nel quale io non avevo mai messo piede» (p.62).
Alex, suo fratello, è diventato un giovanotto, fa l'operaio nei cantieri ed entra in contatto con teste calde che lo suggestionano e lo porteranno ad un gesto di rischio estremo che gli costa la vita. Ma soprattutto è un debole, indifeso, impedito da un grave difetto nel parlare e per questo la sorella soffre incessantemente per lui, gli dedica la vita, lo protegge, anche se nulla può quando capisce che sta per prendere una cattiva strada; la madre sembra assente, dopo la separazione dei genitori, sono scesi anche loro in città, mentre il padre contadino è rimasto su al maso. Erika è la giovane innamorata di Alex, "vedova" precoce che, assieme a Johanna, cura le spoglie e conserva il ricordo di una vita spezzata, di un sogno non realizzato.
Non è facile dipanare questa trama in un montaggio narrativo assai incalzante, ma mixato in spiazzanti flashback nella successione temporale, ricco di ellissi e di non detti. I due funerali con cui le storie si concludono sono vissuti in modo diverso, certo, ma rimandano ad un comune contesto che Sepp Mall, col suo stile impersonale e oggettivo, prova a ricostruire, ad immaginare con discrezione, dal di dentro di storie private, di tormenti interiori.
Ci aiuta a comprendere, anche se la sua poetica non muove certo da intenzioni di questo tipo, qualcosa del clima di irredentismo anti italiano, di idealismo patriottico che circolava in ambienti sudtirolesi, qualcosa del perché alcuni furono pronti anche a rischiare la pelle per questo, o ebbero la vita devastata dalla spirale di violenza e repressione in cui furono coinvolti, come il padre di Paul e Maria. Le ferite che questo provoca nelle vite delle persone coinvolte, soprattutto i familiari, sono profonde e non si rimarginano. E finiscono per apparire così lontane dalle cause più o meno nobili e collettive che le hanno provocate.
Il senso dolente della vita, che l'autore rappresenta nella sua scrittura spezzata e minimalista, rimane nei sopravvissuti che non cercano né possono darsi spiegazioni. Al pessimismo fatale degli epiloghi fa comunque da contraltare la leggerezza e la vitalità degli adolescenti descritti nei loro sogni e quotidiani passatempi, nel loro cercarsi e girovagare sullo sfondo dei quartieri bolzanini. Questo mondo difficile, questa storia pesante e parecchio indecifrabile sono visti dagli occhi dei ragazzi in un'ottica di ingenua sorpresa che fa ricordare i bambini di Ammaniti in "Io non ho paura" alle prese con le cose terribili che fanno i grandi.
L'editore Keller propone questo volume di Mall come primo di una serie di opere che usciranno nel progetto "Confini" allo scopo di ripercorrere con uno sguardo letterario l'epoca della grande guerra e delle sue conseguenze.
(Carlo Bertorelle)
STRADANOVE, 9/3/2014
AI MARGINI DELLA FERITA, SEPP MALL
di Marilia Piccone
Bambini appassionati di calcio in cerca di risposte che gli adulti non vogliono dare. Una terra divisa e una città troppo stretta per tutti. Un grande romanzo.
"Leggiamo per non essere soli", ha detto il personaggio di qualche libro che non ricordo. Vero. Ma leggiamo anche per sapere, per vivere altre vite diverse dalla nostra, per pensare altri pensieri.
"Ai margini della ferita" di Sepp Mall ci trasporta in Alto Adige, rimasto Südtirol per gli abitanti in grande maggioranza tedeschi. Un Alto Adige che non è quello idilliaco dei picchi innevati delle montagne e delle cassette di fiori alle finestre. È l'Alto Adige degli attentati del 1961- e scopriamo quanto poco sappiamo, o meglio, quanto poco abbiamo riflettuto sulla Storia di questa regione di confine, regalata all'Italia alla fine della prima guerra mondiale senza tener conto del diritto all'autodeterminazione proclamato dopo il crollo dell'impero asburgico, mantenuta forzatamente tranquilla nel periodo tra le due guerre ed esplosa per la prima volta con un attentato nel 1956 a cui seguirono altri, culminanti nel divampare dell'odio della ‘notte dei fuochi' tra l'11 e il 12 di giugno del 1961.
Sepp Mall non fa riferimento esplicito ad alcun attentato- si accenna a tralicci fatti saltare, al tentativo di distruggere il monumento che raffigura un alpino in una piazza. Ma le due storie, che si sviluppano separatamente, si sfiorano senza intrecciarsi e si riuniscono con lievità alla fine, sono raccontate dal punto di vista di un ragazzino e di una giovane donna. Lui perché è poco più di un bambino, lei perché è appena venuta ad abitare in città- nessuno dei due è consapevole di quello che sta accadendo. Lui sa che suo padre è stato arrestato, lei deve accettare che il fratello vada ad abitare per conto suo, ma né l'uno né l'altra collegano i due fatti con quello di cui hanno solo un sentore vago. E l'abilità dello scrittore è proprio in questo, nel costruire un'atmosfera di tensione occulta, nel creare un divario tra chi insorge e la maggioranza silenziosa.
"Il ragazzo disse che suo padre si era dissolto nel nulla, così da un giorno all'altro"- è l'inizio della prima storia, quella del ragazzino che sogna di andare allo stadio di San Siro per vedere giocare Mazzola e poi viene a sapere che suo padre è a Milano, sì, ma in carcere. A lui, tutto sommato, fa perfino comodo che il padre, così severo, non sia più in casa. Così come fa comodo a sua sorella che amoreggia con un soldato italiano. Quando il padre verrà rimandato a casa e sentirà il nome ‘Salvatore', andrà su tutte le furie.
Gli italiani che compaiono nel romanzo di Sepp Mall sono dei poveracci, sono ragazzi spediti all'estremo Nord dall'estremo Sud, sono quanto di più mediterraneo si possa immaginare, con le ascelle chiazzate di sudore, la carnagione scura e i capelli ricci.
Sono altrettanto inconsapevoli della realtà storica della regione in cui si trovano quanto lo sono il ragazzo e la sorella del giovane balbuziente che finalmente trova un ruolo importante per se stesso e poco importa se è strumentalizzato, se qualcuno approfitta della sua ingenuità e ignoranza. Dagli italiani si deve stare alla larga, nel romanzo di Sepp Mall. Quando, per mancanza di soldi, il ragazzo si trasferisce ad abitare nel rione chiamato Harlem (e non a caso), vuol dire che la sua famiglia è caduta proprio in basso: chi mai andrebbe ad abitare in uno di quei casermoni dove vivono gli italiani?
Harlem è il posto più merdoso che ci si possa immaginare, disse sua sorella. Ci abitano solo gli italiani, là. I morti di fame e gli italiani.
Ah, così, disse Paul, però non ti dispiace pomiciare con uno di loro.
Riuscì a malapena a schivare un calcio.
Come se non fosse vero, disse lui.
Non puoi capire, sibilò Maria, sei ancora troppo stupido. Quella con Salvatore è tutta un'altra cosa.
Il finale è nell'ombra, è il lettore ad illuminare le scene, a capire che cosa sia successo, a mettere insieme i pezzi, come fossero quelli di un corpo dilaniato da un'esplosione. Le due tragedie avvicinano il ragazzo Paul e Johanna che aveva sempre protetto l'amato fratello minore ("Qualche volta incespico anch'io, proprio come lui", erano state le parole di apertura della sua storia) e noi abbiamo letto la Storia vista ‘dall'altra parte', due storie su cui fermarci a riflettere. www.stradanove.net
PREZZO: €16,50
DATA USCITA: SETTEMBRE 2014
BROSSURA | PP. 296 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO FRANCO FILICE
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: settembre 2013
BROSSURA | PP. 160 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO LAURA BORTOT
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: NOVEMBRE 2012
BROSSURA | PP. 232 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL FRANCESE SILVIA TURATO
PREZZO: €12,00
DATA USCITA: settembre 2006
BROSSURA | PP. 160 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL FRANCESE TATIANA MORONI
PREZZO: €18,00
DATA USCITA: ottobre 2013
BROSSURA | PP. 416 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL BULGARO SIBYLLE KIRCHBACH
Una scatola nera piena di cenere è tutto quello che resta del padre di Ned e Ango Banov, due fratelli bulgari assai diversi tra loro. Sono passati quindici anni da quando lui, un matematico in bilico tra genio e alcolismo, è morto in circostanze misteriose negli Stati Uniti. Nel frattempo i fratelli hanno portato avanti la loro vita, Ned s'è trasferito oltreoceano e ha fatto strada nel mondo di Wall Street; Ango invece, accantonata la carriera di editore, ha vinto una Green Card e ora si ritrova a portare a spasso i cani dei ricchi newyorkesi.
Ma nella vita il vento cambia... Ned rischia tutto su un presentimento del leggendario broker Soros, Ango rimane immischiato nello scontro tra i sindacati di dog-sitter, e la figura del padre ricompare misteriosamente.
Alek Popov - acuto, leggero, divertente e ironico - riesce a smascherare i meccanismi che regolano l'economia e la società capitalistica, e gioca con la realtà e il paradosso regalandoci un romanzo travolgente.
«Non è di un lavoro che siamo schiavi ma di uno stile di vita. E del denaro che ci permette di condurlo! Non importa da quale fonte provenga. Puoi cambiare il lavoro un'infinità di volte, alla fine ti ritroverai comunque a fare sempre la stessa cosa. Vorresti ritirarti in una casa sul lago? Una con tutti i comfort scommetto! E vorresti al tuo fianco una donna da amare? Immagino che la vorrai bella e buona! E non manca neanche la barca a remi... Sei proprio sicuro di non nutrire in realtà pretese assai alte? Ma dài, torna coi piedi per terra! Vieni a vedere come vive la gente. Guardali bene, coloro che possiedono una sola cosa - il tempo. E il tempo non è vero che è denaro, il tempo è vita. Quindi quando lo finisci...» Kurz si sofferma, il suo sguardo scivola lungo il soffitto, poi s'incanta a fissare il gancio, «quando lo finisci, resti a secco per sempre».
Alek Popov nasce a Sofia nel 1966, si laurea dapprima in Lingue e culture antiche, poi in Lingua e letteratura bulgara presso l'Università di Sofia. Pubblica la sua prima raccolta di racconti The Other Death nel 1992 e a questa seguiranno altre sei raccolte; il suo primo romanzo Mission: London, edito nel 2001 si basa sulle colorate impressioni raccolte nell'Ambasciata bulgara del Regno Unito ed è stato definito e lodato come il più divertente libro bulgaro contemporaneo per la sua sarcastica visione dell'élite dei diplomatici bulgari. Ha vinto numerosi premi letterari tra cui il National Radio's Pavel Veshinov Award per il miglior racconto giallo; il Graviton Award per la miglior "science fiction novel"; il Raško Sugarev Award per il miglior racconto; il prize Helicon per il miglior libro in prosa dell'anno; e di recente il National Prize for Drama Ivan Radoev.
LA STAMPA ITALIANA
LA LETTURA - CORRIERE DELLA SERA
10 novembre 2013
La terra promessa non è di parola per i bulgari negli USA
La crisi inghiotte speranze e posti di lavoro, ma l'America "continuerà ad abbeverarsi di anime in cerca di fortuna..." Come quelle degli emigranti bulgari in fuga dalle macerie lasciate dai sovietici e che si spellano le mani in un applauso quando l'aereo che li trasporta tocca la terra promessa, ignari del destino che li attende. Poco importa se troveranno lavoro e famiglia, se metteranno su casa e avranno magari anche una bella barca da sfoggiare. Resteranno inesorabilmente schiacciati nella morsa di un capitalismo disumano - in questo non dissimile dal comunismo - finendo per perdere le uniche cose che contano: il tempo e le relazioni che questo permette di coltivare. Alek Popov, 47enne talentuoso scrittore bulgaro, usa l'ironia e una sagace leggerezza, ma tocca temi tutt'altro che lievi in questo bel romanzo, I cani volano basso (pagine 416, € 18) già successo di vendite nell'Est Europa, che Keller propone nella traduzione di Sibylle Kirchbach. Due voci, quelle dei fratelli immigrati Ned e Ango (uno broker di successo, l'altro dog-sitter per necessità), e altrettanti angoli di visuale per fotografare una sola realtà e svelarne gli inganni. Si sorride, ma resta l'amaro in bocca.
(Marco Ostoni)
Marieclaire.it - dicembre
Tra i consigli di Natale 2013
Alek Popov "I cani volano basso"
Quando arriva quel pacco dall'America Ango e Ben, due fratelli che vivono in Bulgaria, non pensano certo che contenga le ceneri del padre morto 15 anni prima. L'inizio di questo romanzo è folgorante. E il resto, le (dis)avventure di Ango e Ben - il primo che da editore si ritrova negli States con la Green Card a fare il dog sitter, l'altro alle prese con le ambizioni di Wall Street e una serie di sfortunati eventi - è ancora meglio. Alek Popov, nato a Sofia nel 1966, ha un umorismo cinico e dissacrante e un talento brillante di cui non si può non innamorarsi.
(Marta Cervino)
Ilsole24ore.com
Le strenne natalizie
Autore acuto e divertente Popov gioca a rimpiattino tra realtà e paradosso regalandoci un romanzo travolgente. Dopo quindici anni dalla scomparsa del padre, matematico alcolizzato, due fratelli Ned disinvolto broker e Ango dog-sitter per necessità, bulgari emigrati negli States, ricevono una scatola con le presunte ceneri paterne. In un crescendo travolgente e grottesco realtà e paradosso si mescolano per svelare gli inganni della società capitalista.
(Stefano Biolchini)
Homo Bulgaricus
di Romano A. Fiocchi
Alek Popov, I cani volano basso, traduzione di Sibylle Kirchbach, Keller editore, 2013
L'editore Keller ha un solo difetto: non pubblica autori italiani. Il suo essere un editore di confine (la casa editrice ha sede a Rovereto, Trento) sembra che lo spinga a guardare oltre questo confine, all'esterno, per portare all'interno nuove suggestioni, voci diverse dalle nostre, autori che parlano altre lingue e osservano con altri occhi. In ogni caso, da quell'editore puro che è, Keller pubblica ciò che ama pubblicare. E sceglie con gusto e grande competenza. Basti pensare all'uscita già nel maggio 2008 del romanzo Il paese delle prugne verdi di Herta Müller, premio Nobel l'anno successivo. Oppure, per quanto sulla scia della notorietà, a preziosi testi di nicchia come Il re s'inchina e uccide (2011) e Il fiore rosso e il bastone (2012), dove la Müller inventa un suo proprio linguaggio (le ombre di legno piallato, le frange del tappeto d'asfalto, il cielo della bocca, lo zucchero dei cadaveri, e così via). Oppure ancora gemme letterarie come Accadimenti nell'irrealtà immediata di un misconosciuto ma eccezionale Max Blecher, rumeno di origine ebraica morto di tubercolosi spinale a soli ventinove anni.
Detto questo, I cani volano basso del bulgaro Alek Popov (qui il sito ufficiale dell'autore) è sicuramente un Keller un po' inconsueto. Popov è uno strano miscuglio di sarcasmo dozzinale e di intonazione letteraria, di formule da best seller e di derisione delle stesse, un alternarsi di pagine poetiche e di pagine piene di dialoghi al limite della banalità, ma anche un libro di acute analisi degli spietati meccanismi del liberismo americano e di denuncia delle macerie morali lasciate dal crollo del muro di Berlino. Il tutto attraverso una satira con battute di questo tipo: "Sembrava che lo spirito della cleptomania fosse evaso dalla tomba del comunismo come la maledizione di Tutankhamon".
I cani, insomma, volano basso e alto. Non mi sono "rotolato sul pavimento per le risate", come promette la citazione del Vormagazin sulla prima di copertina, forse perché tra le righe vi ho sempre letto una nota amara. Indubbiamente la scrittura di Popov ha spunti di sottile umorismo ma un umorismo alla Pirandello: i personaggi vivono un disagio interiore che impedisce di ridere di loro nonostante la comicità della situazione. È un disagio, quello raccontato da Popov, di natura sociale e storica. L'homo bulgaricus che appare via via come EBS, "Emigrante Bulgaricus di Successo", FBC, "Fermento Bulgaricus Cialtrone", oppure FBP, "Fermento Bulgaricus Paraculo", è in tutti i casi succube del sogno americano e di quel vuoto culturale venutosi a creare tra la fine del comunismo e l'invasione del capitalismo.
È questo l'aspetto più interessante de I cani volano basso. I fratelli Ned (Nedko) e Ango (Angel) Banov - quasi sdoppiamento di un unico personaggio - sono lo strumento che permette a Popov di insinuarsi nei perversi meandri del potere finanziario sia in America che in Bulgaria. In un casuale scambio di ruoli, l'EBS Ned Banov torna in Bulgaria su incarico dell'azienda per cui lavora, mentre Ango Banov atterra in America e senza volerlo, con un'altrettanto casuale attività di dog sitter, raggiunge il successo a cui il fratello rinuncia deliberatamente. È Ned, con la sua graduale presa di coscienza, che permette a Popov di denunciare le nefandezze del sistema. Un sistema che quando chiede sacrifici di posti di lavoro addita il colpevole ora nella faccia dell'uomo crudele "con l'accento da Far East europeo", se il sacrificio avviene in America, ora in quella dell'uomo crudele con l'accento angloamericano (il collega Kurz), se avviene nel lontano Est europeo. È Ned, per tramite dell'invettiva di Kurz ormai passato dall'altra parte della barricata ossia dalla parte dei lavoratori in sciopero, che fornisce la vera chiave di lettura di un mondo che asservisce chiunque ne faccia parte. Riporto qui di seguito il punto saliente del discorso di Kurz che la penna di Popov costruisce con semplicità ed efficacia:
"Ecco l'essenza dell'economia del libero mercato. Il tempo è denaro. Ma il denaro non si può trasformare in tempo. L'alchimia viaggia in un solo senso. E quando arrivi a capirlo, il tuo tempo è ormai scaduto. Ti resta solo la magra consolazione che, volendo, puoi comprarti una Ferrari. E la soddisfazione è che la maggior parte degli altri invece non se la può permettere. Però sei stato fatto fesso esattamente come tutti gli altri. Ogni persona che si ritrova a dover vendere il proprio tempo è un proletario. Anche il sottoscritto".
Alla successiva domanda del collega Kurz su cosa vorrebbe essere tra altri dieci anni, l'EBS Ned Banov risponde che gli piacerebbe prendersi una vacanza a tempo indeterminato, in una casa sul lago, con una donna di cui essere innamorato, e una barca a remi.
"Caro ragazzo, - gli dice Kurz - fra dieci anni, ammesso che il mondo esista ancora e non sia ridotto in cenere, sarai senior partner e in tutti i miei trent'anni di lavoro non ho mai visto neanche un senior partner prendersi una vacanza a tempo indeterminato. A meno che non fosse stato costretto per malattia o morte. E non ti auguro né l'una né l'altra. Ma in un punto hai ragione: non siamo proletari. Eppure neanche nomadi. Siamo servi della gleba. In senso figurato, non concreto, il che è anche peggio. Perché da questo nasce il nostro destino esistenziale... Non è di un lavoro che siamo schiavi ma di uno stile di vita. E del denaro che ci permette di condurlo! Non importa da quale fonte provenga. Puoi cambiare il lavoro un'infinità di volte, alla fine ti ritroverai comunque a fare sempre la stessa cosa. Vorresti ritirarti in una casa sul lago? Una con tutti i confort scommetto! E vorresti al tuo fianco una donna da amare? Immagino che la vorrai bella e buona! E non manca neanche la barca a remi... Sei proprio sicuro di non nutrire in realtà pretese assai alte? Ma dai, torna coi piedi per terra! Vieni a vedere come vive la gente. Guardali bene, coloro che possiedono una sola cosa - il tempo. E il tempo non è vero che è denaro, il tempo è vita. Quindi quando lo finisci, resti a secco per sempre".
Kurz, ovviamente, farà una brutta fine perché chi parla così sta appunto dall'altra parte della barricata, quella senza potere. E dà fastidio a chi il potere ce l'ha e vuole mantenerlo ad ogni costo.
Interessante, tra gli aspetti letterari, è la struttura del romanzo suddiviso in quarantaquattro capitoli con tanto di prologo e di epilogo. Nei capitoli si alternano le voci narranti in prima persona dei due fratelli, salvo nel capitolo trentatré dove subentra inaspettata la voce di Diane, evanescente personaggio femminile che cambierà più maschere e finirà per innamorarsi del più innocente dei due, Ango. L'alternanza delle due voci principali è evidenziata dall'utilizzo di due tempi diversi: il presente per Ned e il passato remoto per Ango. Non solo, il tempo del romanzo scorre nella stessa direzione ma con due punti di partenza diversi a seconda del protagonista. Il primo capitolo si apre con Ned che si riprende dal coma, ossia nelle battute finali del romanzo, mentre il secondo capitolo vede l'entrata in scena di Ango appena atterrato negli Stati Uniti, ossia all'inizio del romanzo. La narrazione di Ned sarà infatti una sorta di incessante flashback che avrà la soluzione di continuità appunto nel risveglio dal coma.
Il prologo si ricongiunge invece all'epilogo attraverso il tema della scatola di plastica nera che contiene le ceneri del padre di Ned e Ango, matematico, morto in circostanze misteriose negli Stati Uniti e rispedito in patria per ben due volte: false ceneri nella prima consegna, presunte autentiche nella seconda. In Popov il tema del contrario, del tutto non è ciò che sembra, è decisamente uno dei temi portanti. Non per nulla l'arrivo delle ceneri di Mr Banov senior in Bulgaria sarà il pretesto per una delle definizioni più belle, quella di patria: "Un luogo nel quale tornano i morti e dal quale scappano i vivi".
Un'ultima cosa: l'espressione i cani volano basso si riferisce alle quotazioni di un'azienda che produce cibo per cani. Ancora una volta il sottile umorismo di Popov. 29/1/2014
(www.nazioneindiana.com)
LA STAMPA STRANIERA
Squalo e cane. Eccolo il romanzo della svolta (...) raccontato in un modo così fluente e acuto che il possibile secondo fine didattico sembra marginale: che il comunismo e il capitalismo sono fratelli come Ned e Ango... No, sarebbe andare troppo lontano. Ango, che ha la parte migliore, senza esserne davvero felice, sa fin dall'inizio che la guerra dei sistemi è un gioco a somma zero e che sono altre le cose che contano: "Mi sentivo comodo come in una capsula di salvataggio e ho capito che non avrei potuto comprare questa sensazione per tutto l'oro del mondo. Ci sono nicchie in cui l'economia di libero mercato non funziona". Questo meraviglioso libro è una nicchia di quel tipo.
(FAZ, Edo Reents)
Popov è uno dei principali scrittori satirici della Bulgaria, anche più di questo ‐ sta giocando nella serie A dei giovani scrittori europei. I suoi libri che ricordano ‐ meritatamente ‐ per la loro abbondanza di idee folli gli statunitensi T.C. Boyle e John Irving ci danno la prova che anche una strana farsa può farci comprendere l'animo umano.
(FALTER, Sebastian Fasthuber)
Leggere Alek Popov è divertente. (...) Anche nel suo nuovo romanzo ci regala umorismo, ironia e grottesco portati all'estremo...
(O1, Kristina Pfoser)
Molto turbolento, molto divertente.
(STERN, Andrea Ritter)
Il romanzo offre alternativamente il punto di vista di Ango e di Ned e dà anche voce a una donna: la struttura funziona. Il romanzo vive di opposizioni che in realtà non lo sono [...] Invece di lamentarsi dello stato del mondo, Popov dà vita a una storia divertente. Se si presume che la lotta del bene contro il male sia necessaria per un emozionante finale, così come ci insegna Hollywood, in realtà questo romanzo ci svela come le società d'Oriente e d'Occidente abbiano qualcosa in comune.
(DIE PRESSE, Brigitte Schwens-Harrant)
Una segnalazione bulgara.
(KREUZER, Thomas Magosch)
Ridicolmente bello. Alek Popov, classe 1966, presenta un romanzo in cui descrive la figura post-moderna di uno speculatore che ritorna nei più recenti romanzi americani da Bret Easton Ellis, Louis Begley o Richard Ford. Il romanzo del bulgaro Popov non è troppo ambizioso o iper-cool come quelli dei suoi precursori statunitensi, è molto più realistico e alla mano.
(RHEINISCHER MERKUR, Manfred Zähringer)
Ovviamente, senza alcuno sforzo, nel suo romanzo Popov passa dalle scene comiche alla difficile materia del gergo borsistico, e si scopre rapidamente che anche nel suo ultimo romanzo niente è come sembra a prima vista.
(BAYERN 2, Mirko Schwanitz)
Alek Popov colpisce con forza il mito dell'America. Egli mostra in maniera convincente l'isolamento e la visione omologata dei cosiddetti high performers o delle etiche capitalistiche...
(NZZ, Judith Leister)
Da rotolarsi sul pavimento per le risate.
(VORMAGAZIN)
Come nei romanzi transatlantici di John Irving, incidenti grotteschi e spesso piuttosto macabri sono vivacemente collegati. Il tono è più divertente che tragicomico, per lo più così innocentemente divertente che si ride anche dei lamenti e delle riflessioni argute sulle contraddizioni del capitalismo globalizzato, e anche osservando le sue vittime negli Stati Uniti e in Bulgaria.
(SANDAMMEER, Wolfgang Moser)
Due bulgari a New York. Non sembra molto spettacolare. Ma è favoloso leggere come Nedko e Ango sbarcano il lunario nella Grande Mela, anzi è soprattutto grottesco.
(SCHWEIZER ILLUSTRIERTE)
Popov è riuscito a creare una bella favola sull'arroganza, meravigliosamente divertente...
(NÜRNBERGER ZEITUNG, Christian Rothmund)
PREZZO: €15,00
DATA USCITA: FEBBRAIO 2010
BROSSURA | PP. 288 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DALL'AMERICANO TATIANA MORONI
PREZZO: €14,00
DATA USCITA: NOVEMBRE 2015
BROSSURA | PP. 160 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL FRANCESE DI TATIANA MORONI
In un Paese senza nome le autorità hanno trovato il modo di garantire l’ordine sociale: letture pubbliche come strumento perfetto di manipolazione. Gli stadi vengono riempiti di persone che, affamate di emozioni intense, ascoltano avidamente brani ed estratti dei più diversi generi letterari e così le passioni, la rabbia, la disperazione, le paure vengono a galla e svaniscono in poco più di un’ora… fino alla prossima adunanza.
Tutto si svolge sotto l’occhio vigile di agenti che devono essere freddi, efficienti e, soprattutto, analfabeti. In cambio hanno una vita di privilegi e spensieratezze e un numero al posto del nome. Come 1075, il migliore tra tutti, almeno fino a quando un incidente sul lavoro lo confina in un ospedale. Lì nel tedio dei giorni di convalescenza incontra una giovane donna che tiene lezioni di lettura per i bambini malati… e tutto comincia a traballare.
Una favola inquietante e feroce sulle pratiche di controllo della società, sulla libertà, le emozioni, la consapevolezza e sull’amore per la letteratura.
«La lettura produceva effetti spettacolari: non rendeva i pazienti né migliori né peggiori, ma per la prima volta da quando avevano smesso di bucarsi, sniffare, fumare tutto quello che gli passava per le mani, il corpo, di nuovo attivo, esultava. Le emozioni aumentavano, e loro si lasciavano trasportare. Le parole avevano risuscitato l’oggetto della loro dipendenza iniziale: il libro non aveva niente di illegale. Potevano quindi darsi alla pazza gioia».
Cécile Coulon si impone ancora una volta come un’incredibile narratrice di storie. E questa è una vera e propria dichiarazione d’amore per la letteratura. ELLE (FRANCE)
Cécile Coulon è nata a Clermont-Ferrand. Ispirata dalla letteratura francese quanto da quella americana, l’autrice è anche una grande appassionata di cinema e musica. Nel suo universo così convivono Maupin, Proust, Flaubert, Steinbeck, Tennessee Williams ma anche le pellicole di Pier Paolo Pasolini e dei fratelli Coen e la musica di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Ramones.
Considerata una delle più talentuose della sua generazione, ha conquistato critici e lettori con una produzione narrativa di grande qualità. In Italia è apparso, sempre per Keller editore, Il re non ha sonno (2013).
CÉCILE COULON. LA CASA DELLE PAROLE
INTERNAZIONALE | 29 novembre 2015 | Marianne Payot (L'Express)
È una parabola su un totalitarismo senza memoria. L'Agente 1075 è una della migliori reclute. Solido, preparato, analfabeta (un criterio essenziale), privo di emozioni e di amici. Viene ammesso, al termine di una severa selezione, nel famoso servizio nazionale, che ha il compito di disciplianare circa settanta milioni di abitanti. Soprattutto durante le manifestazioni ad alto rischio, nelle quali dei lettori stregano un pubblico isterico con libri fatti di disegni, perchè ogni altra letteratura è stata vietata. È in uno di questi raduni che il macchinario si inceppa e l'Agente 1075 finisce all'ospedale. Di nascosto scoprirà, nell'inattività, l'alfabeto. La giovane autrice tenta con successo un romanzo distopico. Il suo stile, sempre molto sobrio, si sposa alla sua tesi.
QUELLE PAROLE CHE RENDONO LIBERI
REPUBBLICA | 6 dicembre 2015 | Fabio Gambaro
Leggere è rivoluzionario. Nell'inquietante paese immaginato da Cécile Coulon, un dittatore ha messo la pagina scritta fuori legge. Privati dei libri, i cittadini sono però invitati allo stadio dove la lettura pubblica consente loro di abbandonarsi all'emozione. Odio, allegria, commozione o tristezza, le emozioni collettive suscitate a comando, diventano una droga e uno strumento per controllare gli individui. Ma in questo mondo di analfabeti e uomini sottomessi, un Agente del Dipartimento di Sicurezza si imbatte nel fascino clandestino dell'alfabeto. Scopre il piacere sottile della trasgressione, iniziando a decifrare le lettere che in passato gli erano sembrate inutili e pericolose. Un gesto solitario che cambierà la sua vita. Con La casa delle parole Coulon propone una favola tra fantascienza e utopia, la cui allegoria non nasconde i debiti verso Orwell, Huxley e Bradbury. Il suo è un omaggio alle parole e all'immaginazione e al contempo un invito alla libertà dei lettori.
GLI STADI DEI LETTORI NEL 1984 DI CÉCILE
L'ADIGE | 12 dicembre 2015 |
Diavoletto di un Keller, che oltre a grandi narratori dell'Est europeo, importa a Rovereto, Italia, anche una giovane, bionda, scrittrice francese dalla personalità già spiccatissima, come Cécile Coulon. Il titolo originale, anno 2013, quando l'autrice aveva solo 23 anni, è Le rire du grand blessé, ma Roberto Keller, al riso del grande ferito, che è 1075 - il protagonista del libro con un nome programmaticamente spersonalizzato - ha preferito il più evocativo La casa delle parole. La seconda Coulon pubblicata da Keller dopo Il re non ha sonno ha un incipit folgorante: «Cinque uniformi, un autista, una donna delle pulizie, un cuoco, sette telecamere fissate al soffitto, cinquanta ore di presenza all'Ufficio, una Manifestazione ad Alto Rischio a settimana, millenovantacinque giorni di formazione, un gomito fratturato, tra costole rotte, una mascella nuova di zecca, un certo numero di zeri in busta paga, settanta milioni di abitanti da sorvegliare, due auricolari, tre ettari di parco alberato, sessanta chilometri di corsa settimanali, cinquanta pollici di schermo piatto, diciotto minuti di notiziario nazionale. E nessuno con cui condividerlo». Nel Paese senza nome le autorità hanno trovato il modo di garantire l'ordine attraverso letture pubbliche manipolatorie, tenute in stadi affollati di persone che, affamate di emozioni, ascoltano parole che scatenano ogni passione, rabbia e disperazione, che esplodono e svaniscono, fino alla prossima assemblea: «Le parole di un Libro Brivido davano corpo alla paura, che ruggiva». Psicodrammi collettivi, deliri sotto i colpi della voce del Lettore. Tutto sotto l'occhio di agenti freddi, efficienti e... analfabeti. Come 1075, il migliore, finché ha un grave incidente sul lavoro e finisce in ospedale, dove incontra una ragazza che dà lezione ai bambini malati... e la sua vita inizia a scricchiolare... «La lettura produceva effetti spettacolari: non rendeva i pazienti nè migliori nè peggiori, ma per la prima volta da quando avevano smesso di bucarsi, sniffare, fumare tutto quello che gli passava tra le mani, il corpo, di nuovo attivo, esultava». Libri non liberanti.
LA COULON NELLA CASA DELLE PAROLE PROIBITE
IL MATTINO | 17 dicembre 2015 | Maria Vittoria Vittori
In un'epoca imprecisa, all'interno di un paese che non ha nome, si tengono periodicamente letture pubbliche. Manifestazioni ad alto rischio in cui un Lettore è chiamato a scatenare nel pubblico in eccitata attesa le più travolgenti emozioni attraverso un libro appositamente convezionato da uno Scrivano al servizio del potere. La messa in scena delle emozioni è finalizzata al mantenimento dell'ordine pubblico - le parole come droga legale, che dapprima esalta e poi tramortisce - ogni altro libro non partorito da Scrivani prezzolati è proibito e gli Agenti che vigilano su tali manifestazioni sono analfabeti, immuni da tentazioni e pericolo di contagio. È una gigantesca e inquietante gabbia quella costruita dalla giovanissima quanto talentuosa scrittrice francese Cécile Coulon in La casa delle parole appena uscito (edizioni Keller, pagg. 148, €14), ma la storia non è poi così irreale e distopica come può sembrare, dal momento che nasce da una precisa constatazione. «Adoro leggere libri di diversa natura», racconta la scrittrice, incontrata a Roma nell'ambito di "Più libri più liberi", «ma ora ho l'impressione che tutti vogliano leggere lo stesso libro. Non ci si vuole discostare dal genere e dall'autore che si predilige, non si vuole essere sorpresi da una lettura. E il mercato tende a fare un calco di questa tendenza, basandosi sui gusti di tutte queste persone che non vogliono essere "sorprese"». E dunque la storia dell'Agente 1075, che imparando a leggere da clandestino scopre la potenza delle parole non addomesticate e diventa trafficante di pagine proibite, rappresenta un grande omaggio alla letteratura. «E al cinema, alla musica, a qualsiasi forma d'arte che non chiuda chi ne usufruisce in uno schema fisso, ma anzi lo spinga all'immaginazione e alla riflessione. È un omaggio all'arte capace di sorprendere». In questo romanzo, sorprendente non è solo l'impianto narrativo, questo l'universo concentrazionario di individui e testi univoci, ma la stessa sostanza espressiva, stilisticamente rigorosa eppure aperta a diverse contaminazioni, in cui s'avvertono a tratti le sonorità del punck rock: una storia di rivolta esistenzialista ritmata dai Ramones. D'altronde che la letteratura sia per Cécile Coulon una forma di rivolta lo dimostra il filo libertario che attraversa le sue opere, da Il re non ha sonno (Keller 2013), cruda storia di ribellione ambientata in una cittadina della profonda America, fino all'ultimo libro appena pubblicato in Francia, passando per il Manifesto dei bambini selvaggi.
QUEL LIMITE FISICO CON CUI FARE I CONTI
SuperAbile INAIL | marzo 2016 |
Visionario, a tratti apocalittico, forse profetico: il romanzo La casa delle parole, firmato dalla talentuosa Cécile Coulon e tradotto da Keller, disegna l’identikit avvincente di un protagonista senza nome, l’agente 1075. In un Paese misterioso, è vietato saper leggere: si può solo assistere a letture pubbliche e sorvegliate da agenti anch’essi analfabeti. Solo che l’impeccabile 1075 ha un incidente sul lavoro (viene morso da un cane) e durante il ricovero in ospedale resta colpito da una maestra che disegna lettere su una piccola lavagna per i piccoli degenti: una finestra di libertà, che diventa un’attrazione irresistibile per il rigido militare. Imparare a leggere diventa un desiderio tumultuoso, quasi violento, per il quale vale la pena sfidare ogni autorità. Oppresso dai dolori alla gamba, l’uomo granitico fa però i conti con la sua debolezza fisica e la disabilità, pur se temporanea. Non accetta la menomazione, le ferite, soprattutto quelle interiori, perché proibisce a se stesso di provare emozioni ed esprimere sentimenti. E la psicologa risponde al protagonista, di cui tenta di intaccare la corazza: «Se ha un giubbotto antiproiettile al posto del cuore, io non c’entro niente». Eppure la lenta riabilitazione va di pari passo con la rieducazione della sua coscienza all’immaginazione e con lo svelamento della sua vera identità. Nelle ultime pagine, infatti, il numero si trasforma in «lettere maiuscole maldestre: Charles Coban». La rinascita, non solo fisica, è compiuta.
PREZZO: €13,00
DATA USCITA: DICEMBRE 2012
BROSSURA | PP. 208 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL POLACCO MARZENA BOREJCZUK
PREZZO: €15,50
BROSSURA | PP. 224 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL CECO A. CATALANO
Dopo due tentativi di incendio doloso, il suicidio sospetto della signora Horak, la violenza subita da una giovane studentessa, Vilem Lebeda, ispettore capo di un ordinario quartiere di Praga, inizia le sue indagini. Ben presto si imbatterà nel burbero pensionato Viktor Dyk, padre di Dyk junior, da sempre denigrato per i suoi “limiti cognitivi”, se non per la sua stupidità. Ma ricordi oscuri e poco chiari di violenza sembrano aver segnato la sua infanzia…
Lebeda scoprirà anche che il vecchio Dyk è implicato in un omicidio avvenuto quarant’anni prima, archiviato come caso irrisolto…
Caso irrisolto ha tutti gli ingredienti del thriller, ma il romanzo del ceco Patrik Ourednik si rivelerà con lo scorrere delle pagine qualcosa di diverso, una parabola, una satira sociale, una profonda meditazione sui limiti del romanzo, sull’equivoco della comunicazione, e poi ancora un puzzle incompleto, una partita a scacchi… con il lettore!
AUTORE
Patrik Ourednik è nato a Praga nel 1957, ma vive in Francia dal 1984. È autore di dizionari, saggi, racconti, raccolte poetiche ed è anche traduttore in ceco di Rabelais, Jarry, Queneau, Beckett e Michaux.
COSA DICONO
L’umorismo giocoso di Bohumil Hrabal. Il senso dell’assurdo degno de Il buon soldato Sc’vèik […] Il tutto mescolato e shakerato con l’aggiunta di Bouvard e Pécuchet. Quel che si ottiene è Caso irrisolto di Patrik Ourednik. L’EXPRESS
Lo scrittore Patrik Ourednik è un maestro nell’arte dell’eversione e del sovvertimento del genere romanzesco. LE MONDE
IN QUARTA DI COPERTINA
«Ma prima la gente almeno rifletteva».
«Lei crede?»
«In qualche modo tiravano fuori delle idee».
«Eh, delle idee…»
«Non era permesso, ma le tiravano fuori lo stesso».
«Non so se le definirei proprio idee».
«Forse non erano idee, ma almeno si immaginavano delle cose».
«Questo succede anche oggi».
«Oggi nessuno immagina più niente. Tutti parlano e parlano».
«Questa è la democrazia».
«Prima non era permesso».
«Infatti».
«Oggi tutti parlano e nessuno ascolta».
«Proprio così».
«Tutti hanno opinioni».
«Beh, opinioni…»
RASSEGNA STAMPA
IL GIORNALE, 20|12|2016
Daniele Abbiati
Quando si vuol scrivere un libro sul nulla, uno soltanto è il problema da risolvere. Uno solo, ma complesso: mostrare il nulla con le parole. Ora, siccome le parole non sono mai nulla (come minimo sono segni neri sulla carta bianca, da qualcuno interpretabili, in qualche modo), occorre che le parole di quel libro si annullino, che la loro somma sia zero. Non stiamo pensando, qui, a Flaubert e al suo desiderio di scrivere «un livre sur rien», poiché il rien di Flaubert è un rien materiale, non di senso, un rien, quindi, composto di stile. Stiamo pensando, invece, a Patrik Ourednik e al suo Caso irrisolto (Keller editore, pagg. 213, euro 15,50, trad. dal ceco di Alessandro Catalano). Ourednik, abituato a giocare con le parole, a farle roteare, saltare, volare, atterrare, bloccarsi e ripartire, dotato di quell'indole monella e anarchicheggiante di stampo oulipiano, da giocoliere un po' alla Perec, o alla Hrabal, al suo libro sul nulla ha dato una veste gialla. Ottima scelta. Perché nel «giallo» che cosa conta, alla fine? Che la storia abbia un senso; che la galleria di sospetti, indizi, ipotesi e fatti conduca a una soluzione, al limite anche a una non soluzione, il caso irrisolto è comunque un caso.
Qui, invece, Caso irrisolto è un casino, una presa per i fondelli. Non è un caso irrisolto, è un caso irrisolvibile. Qui le parole non si annullano vicendevolmente, non si smentiscono. Più semplicemente, sospetti, indizi, ipotesi e fatti sono rivoli d'acqua assorbiti dalla sabbia prima che giungano al mare del Significato. Esercizi di stile alla Queneau (Ourednik, nato a Praga nel '57, dall'84 vive in Francia), texticules sterili, gratuito e piacevole onanismo narrativo volto a scardinare, a far letterariamente e letteralmente uscire dai gangheri il Lettore, latore del suddetto Significato. Al netto delle digressioni sulla Cechia e su quanto si prendano sul serio gli autori cechi, delle battute rivolte al fruitore o sui critici letterari, del descrittivismo scarno ma incisivo, Caso irrisolto è una complicata macchina per friggere l'aria, a volte autoironica: «Pronunciate, le parole sono come scoregge, per un attimo risvegliano l'attenzione, ma subito dopo si perdono nell'aria; scritte restano in eredità alle generazioni future».
Fra un incidente-suicidio, due incendi, uno stupro, un omicidio di quarant'anni prima, in una Praga concentrazionaria e ghettizzata nella morsa dell'assurdo, dapprima seguiamo fiduciosi il pensionato Viktor Dyck e l'ispettore capo Vilem Lebeda, poi ci chiediamo dove vogliano andare a parare, infine, già che siamo in ballo, balliamo e chi s'è visto s'è visto. A meno che... A meno che il famoso e fantomatico Significato sia questo: «Nasciamo in un romanzo di cui ci sfugge il senso e lo abbandoniamo senza averlo capito». Basta mettere «mondo» al posto di «romanzo» e il gioco è fatto.
PS. Se volete divertirvi di più, leggete prima la Postfazione in cui Jean Montenot si spacca la testa nel tentativo di razionalizzare il tutto, e poi il romanzo. Cosa fatta, capo non ha.
UN GIALLO PRAGHESE E UN FELICE PONTE FRA ORIENTE E OCCIDENTE
LA STAMPA – TUTTOLIBRI, 17|12|2016
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: GENNAIO 2014
BROSSURA | PP. 192 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO FRANCO FILICE
PREZZO: €16,50
DATA USCITA: dicembre 2014
BROSSURA | PP. 288 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL FRANCESE SILVIA TURATO
GRAN PREMIO DEL ROMANZO DELL’ACCADEMIA FRANCESE 2011
FINALISTA PREMIO GONCOURT 2011
Tyrone Meehan è considerato un informatore degli Inglesi e trascorre gli ultimi giorni a Killybegs in attesa dei sicari dell’IRA. Chiederò perdono ai sogni di Sorj Chalandon ci racconta la storia di un traditore della sua gente, della comunità cattolica di Belfast, che emerge dalla durezza del conflitto nordirlandese degli anni Settanta e Ottanta. Un romanzo magnifico – finalista al Prix Goncourt 2011 e insignito del Grand Prix du roman de l’Académie française 2011 – che tocca un argomento ancora scomodo e doloroso per la maggior parte degli Irlandesi. È possibile perdonare? Cancellare, dimenticare? Una lettura autentica e straordinaria che ha i toni di un’epopea.
Sorj Chalandon è nato nel 1952. È stato giornalista per «Libération» prima di passare a «Le Canard Enchaîné». I suoi reportage sull’Irlanda del Nord e il processo di Klaus Barbie gli valsero il Prix Albert-Londres nel 1988. Tra i suoi romanzi precedenti Le Petit Bonzi (2005), Une promesse (2006, Prix Médicis), Il mio traditore (Mondadori, 2009) e La Légende de nos pères (2009) tutti editi in Francia da Grasset. Le sue opere sono state tradotte in numerosi Paes
Ritorno a Killybegs […] è la storia di un'anima pura resa grigia dalla contingenza, dalla stanchezza e dalla sete di pace. LE MONDE
Trasuda la passione e la disperazione di un uomo che un giorno senza avere scelta affonda nella notte e nella vergogna. Lo sguardo del giornalista e il lirismo del romanziere si fondono in un bellissimo libro follemente innamorato di un paese ferito... TELERAMA
Ritorno a Killybegs è il ritorno a una tragedia personale e anche un ritorno a una tragedia collettiva. Tragico. LA PRESSE
Emozionante, toccante, lo struggente romanzo di Sorj Chalandon ha la forma di una epopea tragica, come la storia d'Irlanda, un paese lacerato e devastato. Si tratta di un libro di profonda umanità, scritto meravigliosamente. Con le parole, con le lacrime del silenzio. BibliObs
Sorj Chalandon torna alla storia di Tyrone Meehan, l'attivista dell'IRA diventato poi un traditore. Egli immagina il suo ritorno al villaggio natale. [...] Questa storia è perfettamente riuscita. EXPRESS
Un romanzo potente, che narra del tradimento di un combattente cattolico irlandese. Il tumulto della storia recente, il tumulto di un destino. LES ECHOS
Immaginare e capire la vita del protagonista il cui tradimento ha messo in discussione le certezze della vostra esistenza e del vostro agire, concedendogli una seconda vita grazie alla narrativa, riassume e corona il lavoro di uno scrittore. Philippe Lancon, LIBERATION
Un romanzo appassionato ma paradossalmente sereno. André Rollin, LE CANARD
Questo è un romanzo davvero eccellente, un grande “coup de coeur”. (...) Questo libro è la storia di un uomo, di un destino e una vita che non ti aspetti... Libraire MOLLAT BORDEAUX
Sorj Chalandon, francese nato a Tunisi, ha scritto in passato un romanzo sul tema del tradimento: un giovane francese scopriva che un eroe dell’Ira, che aveva conosciuto e ammirato, era in realtà un traditore. Torna ora sul tema mettendosi dalla parte del traditore, interrogandosi sulle ragioni per cui si tradisce. Dopo tante lotte, carcere, resistenza, vincono i ricatti del nemico ma anche la stanchezza nei confronti di chi non vuol correre “il rischio della verità”, i propri compagni e dirigenti.
Sul tema del traditore, l’irlandese O’Flaherty ci aveva dato, nel lontano 1925, un forte romanzo, che serpeggia da sempre in tutta la realtà (e la letteratura) che riguarda le lotte, le guerre, i conflitti tra due parti che si credono nel giusto. Il tema è delicato, scabroso e ambiguo fin dai tempi di Giuda Iscariota. “Tutta la vita ero andato a caccia di traditori”, dice il protagonista, e “il peggiore di tutti era nascosto dentro di me”. Chalandon è stato buon giornalista e si sente: sa ricostruire con competenza e passione storie che conosce. Ma è anche un ottimo scrittore che, con questo trascinante e angosciante Retour à Killybegs tradotto benissimo da Silvia Turato, parla di cose che non ha vissuto per interrogarsi sugli effetti delle guerre, e sui tormenti interni di quelle che sono o si definiscono “di liberazione”. Goffredo Fofi
Qualche anno fa, con Il mio traditore, Sorj Chalandon raccontò la storia di un giovane francese pieno di ideali, amico di un dirigente dell’Ira che, si scoprirà poi, da molti anni era una spia al soldo degli inglesi. A quella storia di tradimenti e di delusioni il romanziere francese torna oggi nelle pagine di Chiederò perdono ai sogni. Riprende la stessa vicenda, raccontandola però dal punto di vista di colui che tradisce: Tyrone Meehan... (LEGGI IL RESTO SUL SITO DI D: http://goo.gl/Dp0sz0)
PREZZO: €13,90
DATA USCITA: OTTOBRE 2007
BROSSURA | PP. 304 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL CASTIGLIANO MADDALENA CAZZANIGA
PREZZO: €11,00
DATA USCITA: GENNAIO 2012
BROSSURA | PP. 112 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO ANNA RUCHAT
con le allieve della Fondazione Milano Lingue: Chiara Marelli, Jennifer Perletti, Martina Gorni, Valentina Sironi
PREZZO: €16,50
BROSSURA | PP. 272 | COLLANA RAZIONE K
Traduzione dal ceco
Barbara Zane
Con Come ho incontrato i pesci prosegue la riscoperta di Ota Pavel, assieme a Bohumil Hrabal e Milan Kundera uno degli autori più importanti della letteratura ceca. Anche questa volta Pavel ci trasporta nella sua infanzia e nel magico mondo di Buštehrad. Si parla ovviamente della pesca, la grande passione del padre e dello zio Prošek (i due migliori pescatori del mondo), si scopre l’amore per la vita lungo i fiumi e attorno agli stagni mentre sullo sfondo tornano le ombre del nazismo e comunismo. Limpido e commovente è l’impegno del padre – mai arrendevole e mai triste – nel trovare di che sfamare e provvedere alla propria famiglia sia quando da liberi si navigava in un dignitoso benessere sia nel dramma della persecuzione. Ma per la prima volta tra le righe trapela anche l’amaro destino che attende l’autore, quella malattia che sorgerà improvvisa, dramma e miracolo allo stesso tempo, perché senza quella non avremmo avuto in dono queste splendide pagine.
Qui non si parla solo di pesci, ci sono gli alti e i bassi della vita, c’è la ricerca della felicità e della libertà che fanno sopravvivere alla sporcizia del mondo, alla storia e, persino, alla follia.
Non si può smettere di sorridere ed emozionarsi nella lettura di Pavel, la sua scrittura è una “magia che lavora silenziosamente”, e alla fine saremo tutti concordi nel pensare che il mondo sarebbe molto più povero e insignificante senza Buštehrad.
ESTRATTO DALLA QUARTA
«Per un pescatore non c’è cosa migliore che cominciare a far conoscenza coi pesci da piccolo, quando si è ancora una fanciullina o un ragazzino. Quando a iniziarlo ai misteri della pesca è il papà, uno zio o magari un traghettatore. Nel nostro caso è stato il traghettatore Karel Prošek di Luh pod Branovem, che un po’ alla volta è diventato nostro zio.
È lui che ha insegnato a pescare non solo ai miei fratelli Hugo e Jirka e a me, ma anche a quel bel tipo del nostro papà. Forse lo zio Prošek era nato nella Berounka come i vodník ed era arrivato a Luh con la piena del fiume. Aveva dei bei baffi come quelli dei dragoni e una voce sonora, e anche una bella figura. Sapeva fare qualunque cosa al mondo. Arare e seminare, mungere le vacche, cucinare le patate alla carbonara, trovare funghi porcini e porcinelli rossi nei periodi in cui non ne crescevano, traghettare con la piena, intrecciare cestini, cacciare i caprioli, salvare le persone e la selvaggina mezza morta dal freddo, rompere il muso agli imbecilli, sapeva ridere».
AUTORE
Nato a Praga il 2 luglio 1930. Il suo vero nome era Otto Popper. Il padre, commesso viaggiatore, durante la guerra si trasferì con tutta la famiglia a Buštěhrad, un paesino a poche decine di chilometri da Praga.
Nonostante ciò, la guerra investì in pieno la famiglia e il padre con i due fratelli di Ota Pavel finirono nei campi di concentramento di Terezín, Mauthausen e Auschwitz.
Grande appassionato di sport, Pavel ha praticato l’hockey su ghiaccio nella squadra giovanile dello Sparta Praga e il calcio nello S.K. Buštěhrad. Nel 1949 si dedica alla scrittura come cronista sportivo. Nel 1964 appaiono i primi segni della malattia che lo costringerà a una lunga serie di ricoveri ma inizia anche il periodo più fecondo e creativo per la sua scrittura con la produzione di libri indimenticabili tra cui La morte dei caprioli belli e Come ho incontrato i pesci, editi entrambi da Keller.
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: OTTOBRE 2015
BROSSURA | PP. 192 | COLLANA RAZIONE K
TRADUZIONE DAL POLACCO DI MARZENA BOREJCZUK
In Come se mangiassi pietre, W. L. Tochman ci trasporta nel presente della ex Yugoslavia con un reportage dal grande valore letterario. Grazie al suo sguardo unico e al suo stile essenziale, sempre aderente alla vita, riesce a trasformare ciò che racconta in un universo narrativo da cui è impossibile staccarsi e rimanere estranei. Un gioco a incastro fatto di storie che sfumano una nell’altra e che ci riporta le testimonianze dei sopravvissuti, i ricordi e la forza delle donne che provano a superare l’orrore e le conseguenze di un conflitto devastante.
«Un libro terribile e bellissimo che andrebbe fatto leggere nelle scuole». IL SOLE 24 ORE
PREZZO: €14,00
DATA USCITA: NOVEMBRE 2010
BROSSURA | PP. 144 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL POLACCO MARZENA BOREJCZUK
PREZZO: €16
DATA USCITA: OTTOBRE 2015
BROSSURA | PP. 256 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL RUMENO DI ANITA NATASCIA BERNACCHIA
Saša ha nove anni e vive in una zona agricola nel Sud dell’Unione Sovietica. Ogni giorno prende il pullman che lo porta dal suo piccolo villaggio alla scuola in città. Lì la vita scorre felice sotto il comunismo, con i suoi slogan, le parate, le fattorie collettive, le organizzazioni giovanili... Saša prende tutto alla lettera e venera i martiri della causa comunista, i cui volti sono dipinti sui muri della scuola – soprattutto Lenin, gloria dell’Unione Sovietica.
Ma in classe accumula brutti voti, nonostante tutti gli sforzi possibili, e deve sopportare la disapprovazione dell’insegnate Nadežda Petrovna. Così alle lezioni preferisce il recupero della carta straccia e del ferrovecchio, ma soprattutto il bosco dove raccoglie le erbe per i maiali e fa bei pensieri.
Nel frattempo, in quegli stessi luoghi, Nikolaj Arsenievič è ossessionato da strani progetti: avere la scala più alta di tutti, o allevare conigli nella foresta.
Sospeso tra realtà e sogno, con i colori e le illusioni dell’infanzia, I conigli non muoiono mai si presenta come una critica gioiosa ai regimi totalitari e, attraverso l’innocenza di un bambino, svela le contraddizioni del pensiero unico...
Savatie Baștovoi (nome laico Ștefan) e nato a Chișinău nel 1976. Suo padre, docente di filosofia, fu un propagandista dell’ateismo scientifico, al quale egli stesso aderì in gioventù. L’ultimo anno di liceo viene ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove scrive Un diazepam per Dio, che lo fa conoscere come poeta.
Studia filosofia a Timișoara, facoltà che abbandona dopo due anni. Dal 1993 pubblica poesie e romanzi, nonché racconti, saggi e articoli nelle principali riviste letterarie romene e moldave. Nel 1999 riceve la tonsura come monaco cambiando il nome in Savatie. Nel 2000 viene ordinato ierodiacono, e nel 2002 ieromonaco. Oggi vive nel monastero “Noul Neamț” di Chițcani, villaggio situato tra Tiraspol e Bender, nella regione separatista della Transnistria.
I conigli non muoiono mai è il suo primo romanzo tradotto in italiano.
PREZZO: €14,00
DATA USCITA: GENNAIO 2013
BROSSURA | PP. 184 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL TEDESCO FRANCO FILICE
PREZZO: €10,00
DATA USCITA: NOVEMBRE 2005
BROSSURA | PP. 192 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL CASTIGLIANO M. Cazzaniga, E. Contipelli, R. Keller
PREZZO: €13,00
DATA USCITA: NOVEMBRE 2011
BROSSURA | PP. 136 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL CASTIGLIANO M. Cazzaniga, E. Contipelli, R. Keller
Brossura | pp. 224 | Traduzione dal fracese di Maurizia Balmelli | Collana PASSI | Immagine di copertina di Giovanni Cavulli
ISBN 978-88-89767-44-3
Premio Schiller
Prix Marguerite Audoux
Prix Lettres Frontière
Prix Henri Gaspoz
Paul regna padrone sulla propria fattoria, sulle bestie e sulla moglie.
È un contadino fuori dal tempo e semianalfabeta che dedica la vita al lavoro nei campi sull'Alpe e agli amati animali. Un tran tran quotidiano al quale deve adeguarsi anche la moglie, che ha rinunciato a tutto.
Non c'è spazio per nient'altro: né emozioni, né sentimenti, almeno fino all'arrivo di Jorge, l'operaio chiamato in aiuto per la bella stagione, che dal Portogallo viene a scombinare gli equilibri, a mettere in discussione le certezze, a portare col vento caldo del Sud nuove parole e uno sguardo diverso che per la prima volta si sofferma su chi chiede solo affetto e attenzione.
Con un linguaggio audace e una prosa senza eguali Noëlle Revaz ci regala un ritratto inedito e brutale dell'amore, un viaggio sconvolgente nell'animo umano.
La stampa
Un esordio, un capolavoro CONTRUIRE
Come Céline ha inventato una lingua urbana... così Revaz ricrea un parlare contadino LE TEMPS
Un libro fantastico sulla freddezza del cuore NEUE ZUERCHER ZEITUNG
Un capolavoro. Raccomandato a chi non è debole di cuore SBD LIBRARY SERVICE
Revaz ha creato una nuova lingua. Un capolavoro SONNTAGSBLICK MAGAZINE
Uno stile che colpisce in piena fronte CULTURACTIF
L'autrice
Noëlle Revaz nasce nel 1968 a Vernayaz, sesta tra nove figli. Nel 2002, Éditions Gallimard pubblica il suo primo romanzo Rapport aux bêtes riconosciuto, tra gli altri, con il Prix de la Fondation Schiller, il Prix Lettres Frontière e il Prix Marguerite-Audoux. Il libro è stato tradotto in diverse lingue e arriva ora in Italia (2013) col titolo Cuore di bestia, a cura di Keller editore.
Il romanzo è stato adattato due volte per la scena. Noëlle Revaz ha scritto alcune novelle, monologhi e radiodrammi. Collabora con l'Istituto svizzero di letteratura a Bienne ed è membro del gruppo di scrittori "Berna è ovunque". Vive a Bienne, in Svizzera.
In "Cuore animale", Noëlle Revaz ha inventato una lingua contadina che le ha aperto le porte della collezione bianca di Gallimard.
"Come Céline ha inventato una lingua urbana sfalsata, Noëlle Revaz ricrea un parlare contadino. Un vero pugno in faccia alla bella lingua". Il poeta e romanziere Guy Goffette non ha paura di fare confronti, lui che ha convinto Gallimard ad accogliere nella sua collezione bianca "Cuore animale". Qualche mese dopo il "Judas" di Maurice Chappaz, ecco dunque un nuovo shock estetico venuto dal Vallese. La trama del romanzo è semplice: Paul è un contadino rozzo e brutale. Maltratta sua moglie che chiama Vulva, la riduce alla sua funzione genitale e ignora i figli, massa indistinta di mocciosi che talvolta punisce per bene. In questo mondo di silenzi appare un bel giorno Jorge, un portoghese stagionale, un'allegoria del Sud, che si chiamerà Georges - perché si è in Svizzera, qui - e qualche volta "il Portoghese". Infinitamente più acuto, istruito del padrone, l'uomo fungerà da catalizzatore. Grazie a lui, il padrone cambierà gradualmente, accetterà che sua moglie si prenda cura infine del tumore che gli corrode lo stomaco, e abbandonerà le sue paure arcaiche. In breve, lo straniero, prima di partire in autunno, lo renderà più umano, meno distruttivo ma più rivelatore dell'angelo nel "Teorema" di Pasolini. Il racconto si conclude col remake muto di "Donna, vieni a sederti sulla panchina..." dell'antico libro di famiglia.
Questa storia non è realista e pertanto, come dice Guy Goffette, "si sguazza nel letame". Le scene della stalla o dei campi non convinceranno forse i professionisti ma hanno una verità nel quadro di questa storia violenta, a volte difficile da sostenere. "Ho dovuto chiedergli di cancellare certe ingiurie, troppo scioccanti, ma non ho potuto farla rinunciare al nome così brutale di Vulva". Il discorso interiore di Paul, il quale inciampa nella propria rabbia, nell'incapacità di esprimere le emozioni, suona bene, come i dialoghi, eppure nessuno parla così nella vita. Passato il primo sussulto provocato da una sintassi contorta, un lessico deformato, i personaggi iniziano a esistere e il lettore entra nell'universo del romanzo. È molto forte, molto duro anche, ma l'autrice opera il prodigio di mantenerlo leggibile. Ci sono anche alcune scene infinitamente poetiche e tenere, per esempio quando Georges, Paul e i bambini cominciano a dipingere. Con abilità, Noëlle Revaz evita i cliché, pur lavorando su sentimenti universali, quali l'amore, la gelosia, la paura, quella del sesso e della differenza, il desiderio di dominio.
Soprattutto, ha creato uno stile ibrido, giocando sulle pause, mescolando qualche elvetismo a delle costruzioni sapienti, trasformando gli aggettivi in nomi, inventando dei giri di parole che si crederanno talvolta tradotti da una lingua straniera o antica, dove risuona il ritmo di un verso. Questo primo romanzo, pensa Guy Goffette, dovrebbe fare molto rumore nel mondo civilizzato del romanzo francese. E se il suo esotismo è stato troppo radicale? "Poco importa. La letteratura innovativa non ha mai molta eco sul momento. Chi ha letto Faulkner all'epoca?" NÉE ISABELLE RÜF, LE TEMPS
La forza del romanzo di Noëlle Revaz è tale che è entrato a far parte di altre opere. Non solo ha ispirato il film "Cuore animale" ma al libro è dedicata una parte del romanzo "La libreria del buon romanzo" di Laurence Cossé (in Italia uscito per E/O nella traduzione di A. Bracci Testasecca).
"Non avrebbe retto a lungo se un pomeriggio di quello stesso inverno, a dicembre, in un'ora morta, non avesse notato in libreria una ragazza vestita da città - sebbene questa definizione convenzionale si addica poco a una mise che non era da città: diciamo vestita in modo inconsueto per Méribel - che in piedi, sempre meno attenta a non farsi vedere e sempre più rapida man mano che andava avanti, leggeva "Rapport aux bêtes" (ndr Cuore animale), un romanzo di Noëlle Revaz che Ivan teneva in altissima considerazione. Un'ora e mezza dopo, arrivata all'ultima pagina, chiudeva il libro visibilmente emozionata e si accingeva a rimetterlo al suo posto sulla mensola delle prime scelte quando si accorse che Ivan la guardava. La ragazza arrossì e gli disse senza abbassare lo sguardo: non ho soldi. Non c'è problema, si affrettò a rassicurarla Van, che se non altro aveva ancora la libertà di ricevere chi voleva nel suo seminterrato. Poi indicò con il mento il libro appena rimesso a posto e chiese: allora, che ne pensa?
La ragazza era sotto shock. Da tempo non aveva letto un'opera di tale intensità. Avrebbe ricordato per un pezzo quegli sfondi, quell'ambientazione, quei personaggi, quel contadino tanghero di mezza montagna con la moglie senza nome. La cosa che l'aveva colpita di più era la struttura del lungo monologo, il fraseggio, l'inventiva della scrittrice che aveva creato una lingua nuova, un francese senza uguali, gibboso, zoppicante, ma pienamente giustificato visto che a parlare è un bifolco, anche lui reso magistralmente..."
STAMPA
INTERNAZIONALE
14/6-21/6/2013
UOMINI O ANIMALI
Noelle Revaz "Cuore di bestia", Keller, 220 pp, 14.50
Arriva in ritardo e sorprende il romanzo che l'autice pubblicò da Gallimard all'età di 32 anni e la cui delicata traduzione è stata affrontata da Maurizia Balmelli. È un lungo monologo - che scivola talvolta nella terza persona - di un contadino e allevatore, Paul, rozzo, maschilista e violento, dalla psicologia primaria e contorta, che tratta la moglie, soprannominata la Vulva, come fosse una delle sue bestie, ma con meno carezze e meno capacità di dialogarci. La tratta come una bestia, ma anche lui, infine, è poco più che una bestia. E i molti bambini della coppia, indefiniti, per Paul sono anche loro come bestie, anzi meno, perché s'intende meglio con le vacche.
L'arrivo di Georges, un bracciante portoghese, semina nel suo cuore dubbi e rivalità, perché quello è gentile e a suo modo colto, e tratta la Vulva da donna e cerca di rompere la crosta selvatica di Paul. È lui a capire che la donna ha un cancro e a farla visitare e ricoverare, e la gelosia che suscita porta a un minimo risveglio di sensibilità. Non c'è tragedia, infine, anche se la si attende, ed è un altro merito di un romanzo che entra nel cuore di Paul e si esprime (e pensa) come farebbe uno come Paul: un impressionante "flusso di coscienza" che sembra legare le Alpi svizzere ai sud di Faulkner o di Caldwel, ma avendo in mente, credo, anche il dimenticato Ramuz.
(Goffredo Fofi)
GRAZIA
21-27 GIUGNO 2013
"Cuore di bestia" di Noelle Revaz, trad. di M. Balmelli.
Scritto bene da una sorprendente autrice svizzera di umili origini, sesta di nove figli, pubblicato dal celebre editore francese Gallimard, è la storia del fattore Paul e della sua vita nelle Alpi del cantone francese, che poco si discosta da quella delle bestie. Paul chiama sua moglie con un nomignolo dispregiativo (né mai sapremo il suo vero nome), non conosce il numero esatto dei suoi figli e ha più tenerezza per gli animali che per gli esseri umani. Ma arriva Jorge, contadino stagionale al loro servizio: uno che legge e scrive...
(Valeria Parrella)
LIBERO
7/7/2013
L'esordio della Revaz
La lingua rurale d'un padre padrone in salsa svizzera
Cuore di bestia (Keller, pp.220, euro 14,50), appena uscito in Italia, è stato nel 2002 l'esordio narrativo di Noëlle Revaz. Un debutto felice, un'avventura letteraria rischiosa ma riuscita. Protagonista del romanzo è Paul, un contadino rozzo e violento, preso dall'amore totalizzante per le sue mucche, uno che sopporta i figli e prima di chiunque altro picchia la propria moglie, che chiama Vulva: «Allora io mi dico», fa dire la Revaz a Paul, «che questa Vulva non è proprio in grado di pensare, e che non ha sale in zucca, io l'ho sempre saputo, e mi avvicino per farle male perché mi dà sui nervi così muta, stupida come nessun altro, e le mollo uno sganascione».
La lingua che la scrittrice della Svizzera francese affida ai suoi protagonisti, come ha sottolineato il critico Roman Bucheli, riesce a conseguire tre obiettivi: risulta credibile al lettore, registra l'«artificiosità concordante fin nel più piccolo dettaglio» di quel modo di parlare e riesce a far conservare, nonostante tutto, un minimo di simpatia per i personaggi della storia (e qui il merito va ripartito con la traduttrice Maurizia Balmelli).
La storia, che, se non fosse per alcuni dettagli richiamanti all'incirca il 1990, potrebbe essere benissimo ambientata nell'Ottocento, è presto detta: Paul, che si autodefinisce «maestro», assume come lavoratore stagionale il portoghese Jorge, che inaspettatamente si dimostra essere di buona formazione culturale. Questi osserva con grande acume lo svolgersi della vita del contadino, fino a dissezionarla e a fare proposte per migliorarla. Sarebbe meglio, per esempio, secondo il giovane, che Paul si rivolgesse più spesso alla moglie. Il fatto che il contadino odi in generale le donne e che lei, «Vulvinha», come finisce col chiamarla Jorge, cerchi e trovi comprensione nel portoghese rappresenta il punto di partenza di un processo emozionale che per la donna significherà mettere in gioco la vita.
Dei suoi figli Paul non sa assolutamente nulla, neppure i nomi («e quella là, quella femminuccia»). Della moglie poi sa solo che non funziona come lui vorrebbe e che il suo tumore al «ventre rotondo» è solo un pretesto per non lavorare. I nomi delle sue mucche però Paul li conosce tutti, ma anch'esse per lui non sono altro «sacchi di fieno e d'erba dai quali si fa il latte». E tuttavia, quando quelle moriranno a causa di un virus, anch'egli cadrà preda alla malinconia.
Chiamato a narrare in prima persona è Paul, dunque tutto ciò che accade passa attraverso di lui, attraverso i suoi occhi, e si fa scrittura: «La Vulva nella paglia non mi vede, con questo bel tempo fuori il buio dentro la acceca. Mentre aspetta così di vederci qualcosa uno ha modo di guardarsi la Vulva che ha e che con tutto il tempo dedicato alle bestie si dimentica di osservare». E ciò che colpisce è l'energia poetica attraverso la quale la Revaz è riuscita a creare un intero mondo. Ciò che risulta interessante è che colui che qui parla, il contadino «testa di legno», non è padrone del proprio pensiero e della scrittura. Il risultato è che esce spesso dal campo semantico, escogita casualità sbagliate e usa preposizioni invertite. Il monologo che ne deriva risulta essere di rara immediatezza, tanto che la lettura corre veloce e gradevole.
(Vito Punzi)
AVVENIRE
13/07/2013
Noelle Revaz, non arcadia ma crudeltà
Oltre al benemerito editore Casagrande che opera nel Canton Ticino, a Bellinzona, anche Keller, editore trentino sa pescare nella letteratura svizzera opere significative e importanti. È il caso di due libri recenti. Il primo, breve e per capitoli brevissimi, è "Dietro la stazione", un gioiello di scrittura tedesca piena di parole e inflessioni romance del grigionese Arno Camenisch, che racconta una piccola comunità montana con gli occhi di un bambino di cinque-sei anni. Un anno di minime storie, dove uomini e animali e piante, sole e neve, vita e morte, si susseguono o si mischiano a scandire una scoperta del mondo e della società dal minino di un'esperienza infantile che è anche, come sappiamo, un massimo di pienezza, immediatezza, apertura.
"Dietro la stazione" è un libro molto recente, fa parte di un trittico grigionese di cui è la seconda parte, la terza non è ancora uscita, la prima è stata tradotta per Casagrande dalla stessa geniale traduttrice della seconda, Roberta Gado, e si chiama "Sez Ner", nome di un monte su cui passano le stagioni quattro squinternati pastori di animali diversi. La montagna è la vera protagonista, e gli uomini vi confrontano la loro estroversa e simpatica rozzezza con quella degli animali, come in fondo accade anche nel romanzo di Noëlle Revaz, il primo di questa scrittrice della Svizzera francofona, cantone di Vaud, a venir tradotto in italiano (nell'originale "Rapport aux bêtes", nell'edizione italiana "Cuore di bestia"). Quasi contemporaneamente, però, sulla bella "rivista svizzera di scambi letterari" "Viceversa", di fatto un utilissimo ed eccitante almanacco annuale che esce nelle tre grandi lingue del paese e la cui versione italiana è edita da Casagrande, ci sono due racconti della Revaz particolarmente asciutti, "Barbablù" e "Un aiutino", che scavano negli inferni delle normali, quotidiane crudeltà contemporanee, che si annidano ovunque, e anche, come è ben noto, nel seno delle famiglie. Entrambi hanno a protagonisti bambini, ma lontani dal contesto protettivo e forte del villaggio, dentro appartamenti e ambienti di un oggi metropolitano e borghese. "Cuore di bestia", il romanzo edito da Keller è già vecchio, perché risale al 2002.
Nonostante il successo francese (la Revaz pubblica per Gallimard) e le molte traduzioni e i molti premi, ci voleva un editore animoso come Keller per avere il coraggio di proporcelo. Perché, sì, la Revaz non è una scrittrice consolante e piacevole, non indora le pillole, non vende fumo, non imita e copia, non sceneggia all'impronta storielle edificanti o scandalizzanti e preferibilmente "impegnate" sul fronte umanitario nazionale e internazionale. Se ha dei maestri, mi pare trattarsi di americani di ieri (dal grandissimo Faulkner al più modesto ma a tratti formidabile Caldwell) o anche francesi (qualcuno ha fatto, esagerando, il nome di Céline). O anche svizzeri, perché "Cuore di bestia" fa pensare al Ramuz più duro, quello montanaro che rivendicava la libertà del francese parlato dagli svizzeri come lingua autonoma e viva, parlata da tanti, concretamente legata all'esperienza. Nel 2002 la Revaz aveva solo 32 anni, e una certa provocatoria spavalderia alla quale non ha rinunciato, a giudicare dai racconti ricordati. "Cuore di bestia" è un lungo monologo - che scivola talvolta nella terza persona - di un contadino e allevatore. Paul, rozzo, maschilista e violento, dalla psicologia primaria e contorta, che tratta la moglie, soprannominata la Vulva, come fosse una delle sue bestie, ma con meno carezze e ancor meno capacità di dialogarci. Tratta la moglie come una bestia, ma anche lui, infine, è poco più di una bestia... E i molti bambini della coppia, indefiniti, selvatici, che sembra crescano in branco e da sé, per Paul sono anche loro come bestie, anzi meno, perché lui s'intende meglio con le vacche, le ama certamente di più. L'arrivo di Georges, un bracciante portoghese chiamato ad aiutarlo, semina nel cuore di Paul dubbi e rivalità.
Georges è un omaccione da soma, come Paul, ma qualche libro l'ha letto e ha anzi rifiutato l'università per qualche delusione nei confronti della cultura e della sua funzione fintamente salvifica. Georges è a suo modo colto ma è soprattutto una persona sensibile, che ha sofferto, e che sente e si interroga. Egli tratta la Vulva da donna, e cerca di rompere la crosta selvatica di Paul, di portarlo a ragionare, e ciò facendo ad affinarsi. È lui a capire che la donna ha un cancro e a farla visitare e ricoverare, e la sua intesa istintiva e crescente con lei porta a un minimo risveglio di sensibilità nell'ottuso Paul, lo rende geloso e lo spinge a ragionamenti contorti, ossessivi, le cui associazioni mentali sono primarie, e sono incapaci di approfondire le altrui azioni e le proprie capendone le motivazioni, capendo gli altrui sentimenti e addirittura i propri.
Ci si aspetterebbe che prima o poi la tragedia esploda, in questo piccolo mondo chiuso, dove scarsi sono i rapporti con l'esterno. Ma la tragedia non arriva, e anche questo è significativo in un romanzo che entra nel cuore del protagonista e ne segue i tracciati, le reiterazioni, e si esprime (e pensa) come farebbe uno come Paul, con le sue parole in un'impressionante ‘flusso di coscienza'. La Revaz gioca con le parole con grande abilità, e si ha a volte il sospetto della recita della crudeltà, ma dal mondo che descrive essa ne viene, e sa renderne la durezza come nessun altro. "Cuore di bestia" è un esordio e come tale è un libro sorprendente. Dobbiamo leggere i successivi, però, per capire in che direzione si è mossa dopo di allora.
(Goffredo Fofi)
l'UNITà - 14/09/13
La voce forte e contadina di Revaz
BUONE DAL WEB
Stimolato da qualche segnalazione in rete, ho letto «Cuore di bestia», il romanzo della scrittrice svizzera Noëlle Revaz. Un romanzo che ci ha messo più di dieci anni a essere pubblicato in Italia: e per fortuna ci hanno pensato l'editore Keller di Rovereto e la traduttrice Maurizia Balmelli, (anch'essa svizzera, del Ticino). E qui occorre subito rilevare una cosa: la potenza di questo romanzo è nella lingua, una lingua densa e materica che pare restituire le asprezze di una Svizzera rurale e montanare dove prende corpo la narrazione. E facilmente s'immagina la difficoltà dell'esercizio di traduzione, e tanto più se ne apprezza la resa: del resto la Balmelli ha affrontato prove altrettanto impegnative, come Suttree di McCarthy, che le fruttò il premio Vallombrosa Von Rezzori.
Ecco, Cuore di bestia (Rapport aux bêtes il titolo originale) è un libro con una voce forte, incisiva, assolutamente singolare. «Come Céline ha inventato una lingua urbana... così Revaz ricrea un parlare contadino», hanno scritto su Le Temps: ma anche se mettiamo da parte questi paragoni veramente eccessivi, ciò che resta è comunque un gran libro. La storia è semplice, come semplice è il protagonista/narratore. Paul, un allevatore rozzo e dai sentimenti elementari e primitivi, che chiama «Vulva» la sua donna, non ben distinta ai suoi occhi dalle mucche che cura, anzi vista come un ingombro inutile, diversamente dalle vacche che danno latte. Con loro parla, con lei no. Se mai, qualche volta la picchia. Ma questa violenza, grazie alla lingua, ci arriva trasfigurata, e tutto ci appare come deve apparire a Paul, di una smisurata irresponsabile leggerezza. Poi arriva Jorge, un portoghese dall'animo attento, che cura la donna e semina qualche embrione di «educazione sentimentale». La vicenda non si scioglie in tragedia né in lieto fine, ma rotola fino in fondo in una sospensione fuori dal tempo che, in effetti, resta addosso al lettore anche dopo l'ultima pagina.
(Marco Rovelli)
STAMPA STRANIERA
In "Cuore di bestia", Noëlle Revaz ha inventato una lingua contadina che le ha aperto le porte della collezione bianca di Gallimard.
"Come Céline ha inventato una lingua urbana sfalsata, Noëlle Revaz ricrea un parlare contadino. Un vero pugno in faccia alla bella lingua". Il poeta e romanziere Guy Goffette non ha paura di fare confronti, lui che ha convinto Gallimard ad accogliere nella sua collezione bianca "Cuore di bestia". Qualche mese dopo il "Judas" di Maurice Chappaz, ecco dunque un nuovo shock estetico venuto dal Vallese. La trama del romanzo è semplice: Paul è un contadino rozzo e brutale. Maltratta sua moglie che chiama Vulva, la riduce alla sua funzione genitale e ignora i figli, massa indistinta di mocciosi che talvolta punisce per bene. In questo mondo di silenzi appare un bel giorno Jorge, un portoghese stagionale, un'allegoria del Sud, che si chiamerà Georges - perché si è in Svizzera, qui - e qualche volta "il Portoghese". Infinitamente più acuto, istruito del padrone, l'uomo fungerà da catalizzatore. Grazie a lui, il padrone cambierà gradualmente, accetterà che sua moglie si prenda cura infine del tumore che gli corrode lo stomaco, e abbandonerà le sue paure arcaiche. In breve, lo straniero, prima di partire in autunno, lo renderà più umano, meno distruttivo ma più rivelatore dell'angelo nel "Teorema" di Pasolini. Il racconto si conclude col remake muto di "Donna, vieni a sederti sulla panchina..." dell'antico libro di famiglia.
Questa storia non è realista e pertanto, come dice Guy Goffette, "si sguazza nel letame". Le scene della stalla o dei campi non convinceranno forse i professionisti ma hanno una verità nel quadro di questa storia violenta, a volte difficile da sostenere. "Ho dovuto chiedergli di cancellare certe ingiurie, troppo scioccanti, ma non ho potuto farla rinunciare al nome così brutale di Vulva". Il discorso interiore di Paul, il quale inciampa nella propria rabbia, nell'incapacità di esprimere le emozioni, suona bene, come i dialoghi, eppure nessuno parla così nella vita. Passato il primo sussulto provocato da una sintassi contorta, un lessico deformato, i personaggi iniziano a esistere e il lettore entra nell'universo del romanzo. È molto forte, molto duro anche, ma l'autrice opera il prodigio di mantenerlo leggibile. Ci sono anche alcune scene infinitamente poetiche e tenere, per esempio quando Georges, Paul e i bambini cominciano a dipingere. Con abilità, Noëlle Revaz evita i cliché, pur lavorando su sentimenti universali, quali l'amore, la gelosia, la paura, quella del sesso e della differenza, il desiderio di dominio.
Soprattutto, ha creato uno stile ibrido, giocando sulle pause, mescolando qualche elvetismo a delle costruzioni sapienti, trasformando gli aggettivi in nomi, inventando dei giri di parole che si crederanno talvolta tradotti da una lingua straniera o antica, dove risuona il ritmo di un verso. Questo primo romanzo, pensa Guy Goffette, dovrebbe fare molto rumore nel mondo civilizzato del romanzo francese. E se il suo esotismo è stato troppo radicale? "Poco importa. La letteratura innovativa non ha mai molta eco sul momento. Chi ha letto Faulkner all'epoca?" NÉE ISABELLE RÜF, LE TEMPS
La forza del romanzo di Noëlle Revaz è tale che è entrato a far parte di altre opere. Non solo ha ispirato il film "Cuore animale" ma al libro è dedicata una parte del romanzo "La libreria del buon romanzo" di Laurence Cossé (in Italia uscito per E/O nella traduzione di A. Bracci Testasecca).
"Non avrebbe retto a lungo se un pomeriggio di quello stesso inverno, a dicembre, in un'ora morta, non avesse notato in libreria una ragazza vestita da città - sebbene questa definizione convenzionale si addica poco a una mise che non era da città: diciamo vestita in modo inconsueto per Méribel - che in piedi, sempre meno attenta a non farsi vedere e sempre più rapida man mano che andava avanti, leggeva "Rapport aux bêtes" (ndr Cuore di bestia), un romanzo di Noëlle Revaz che Ivan teneva in altissima considerazione. Un'ora e mezza dopo, arrivata all'ultima pagina, chiudeva il libro visibilmente emozionata e si accingeva a rimetterlo al suo posto sulla mensola delle prime scelte quando si accorse che Ivan la guardava. La ragazza arrossì e gli disse senza abbassare lo sguardo: non ho soldi. Non c'è problema, si affrettò a rassicurarla Van, che se non altro aveva ancora la libertà di ricevere chi voleva nel suo seminterrato. Poi indicò con il mento il libro appena rimesso a posto e chiese: allora, che ne pensa?
La ragazza era sotto shock. Da tempo non aveva letto un'opera di tale intensità. Avrebbe ricordato per un pezzo quegli sfondi, quell'ambientazione, quei personaggi, quel contadino tanghero di mezza montagna con la moglie senza nome. La cosa che l'aveva colpita di più era la struttura del lungo monologo, il fraseggio, l'inventiva della scrittrice che aveva creato una lingua nuova, un francese senza uguali, gibboso, zoppicante, ma pienamente giustificato visto che a parlare è un bifolco, anche lui reso magistralmente..."
PREZZO: €15,50
BROSSURA | PP. 240 | COLLANA VIE
Traduzione dal romeno Bruno Mazzoni
Giovane studente di chimica, Emanuel scopre all’improvviso di essere affetto da tubercolosi ossea. Il medico gli consiglia di curarsi nel sanatorio di Berck, una località di mare nel Nord della Francia. Inizia così un percorso di conoscenza e guarigione, che in poco più di un anno farà incontrare al ragazzo possibili amori e nuovi amici e lo metterà di fronte all’ingiustizia della sorte.
Cuori cicatrizzati è un romanzo di formazione che supera le classificazioni e si propone di raccontarci la sofferenza umana, quella del corpo e dell’anima, così come la ribellione a un destino crudele.
Blecher ci mette di fronte alla voglia di vita che esplode anche quando sembra predominare la rassegnazione, ma riesce anche a raccontare la crudeltà dei malati e l’infermità come alibi per non affrontare il mondo.
Cuori cicatrizzati, mai tradotto prima in italiano, è ormai considerato uno dei grandi classici del Novecento. Una lettura vera che pesca nella stessa vita dell’autore, e che ci riporta nel solco della grande letteratura da Franz Kafka a Thomas Mann, Bruno Schulz…
ESTRATTO DALLA QUARTA
«Credi forse che non sia stata anch’io così nei primi tempi?» gli disse. «Tutti siamo stati travagliati… Tutti ci siamo levati nel cuore della notte e abbiamo tastato disperati il nostro gesso. Tutti… tutti… poi però, quando i colpi della sorte si sono accentuati, non ho più sentito nulla… Sai cos’è che si definisce in medicina ‘tessuto cicatrizzato’? È quella pelle livida e aggrinzita che si forma sopra una ferita rimarginata. È una pelle quasi normale, tranne per il fatto che è insensibile al freddo, al caldo, o alle offese…»
Il paradosso di ogni importante atto creativo è anche qui nella meravigliosa prosa di Blecher: la sfortuna splendidamente raccontata diventa fortuna intellettuale del lettore.
FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG
È motivo di felicità che questo piccolo capolavoro possa sopravvivere per deliziare i lettori per un altro secolo. DAILY TELEGRAPH
"Dal punto di vista artistico, letterario, filosofico, la ricchezza del Novecento ha qualcosa di prodigioso. Si può nutrire la sensazione di conoscere, almeno di nome, le opere più importanti e i loro autori, le poetiche, le circostanze, le mode. Ma poi, ecco un nuovo astro che si aggiunge al già affollatissimo firmamento, e permette di disegnare costellazioni ancora impensate".
Emanuele Trevi, Corriere della Sera a proposito di "Accadimenti nell'irrealtà immediata" di Max Blecher
AUTORE
Nato a Botoşani in Romania, Max Blecher è uno scrittore ebreo morto a soli ventinove anni, nel 1938, per tubercolosi spinale. Trascorse i dieci anni di malattia quasi sempre a letto, praticamente immobile. Ma la sua immaginazione volò libera.
Dotato di un insolito talento e visione scrisse poesie, due romanzi – Accadimenti nell’irrealtà immediata e Cuori cicatrizzati entrambi editi in Italia da Keller – e mantenne un’intensa corrispondenza con André Breton, André Gide e Martin Heidegger. Venne lodato da Eugène Ionesco, Mihail Sebastian, Geo Bogza e Saşa Pana, e molti paragonarono la sua prosa a quella di Franz Kafka, Bruno Schulz, Robert Walser o Thomas Mann.
STAMPA
In una Mitteleuropa decadente, in un sanatorio che fa pensare a Mann ma anche a Kafka, un giovane ricoverato sprofonda nella malattia. Ma la carne si consuma in vari modi nel libro, con la tisi ossea o nell'eros tra i malati, che sono pur sempre giovani e vivi. Il romeno Max Blecher morì a 29 anni; un anno prima, nel 1937, scrisse un capolavoro ora recuperato: Cuori cicatrizzati (trad. di Bruno Mazzoni, Keller, pp. 240). IDA BOZZI
LA LETTURA, CORRIERE DELLA SERA , 28/1/2018
LA SECONDA MAGICA VITA DELL'IMMORTALE BLECHER
Per la storia, Max Blecher morì il 31 maggio 1938. Per Max Blecher medesimo, invece, morì in un giorno del 1928 che la storia non sa precisare, il giorno in cui gli venne diagnosticata la spondilite tubercolare.
Quella sentenza lo trasforma da uomo (anzi da ragazzo, visto che aveva 19 anni) verticale a uomo orizzontale, perché quella terribile malattia distrugge le vertebre, sicché non puoi più reggerti in piedi. Sopravvivi (per la storia, non per te) soltanto se stai sdraiato e, per sicurezza (dei medici, non tua), con il busto imprigionato in un corsetto di gesso. Così, in quella pre-bara, attendi di finire nella bara «ufficiale».
Dunque, logica vuole che se Max Blecher ebbe due morti, ebbe anche due vite. Due vite che, sommate, danno come risultato la sua vita letteraria, la sua vita di scrittore. Una vita dall'intensità strabordante, travolgente, per noi lettori. È la magia della parola, della sua immaterialità, della sua libertà extra fisica, extra clinica. Se la seconda vita di Blecher inizia nel 1928, la prima sboccia l'8 settembre 1909 a Botosani, in Romania. Figlio di un commerciante ebreo produttore di porcellane, Max (all'anagrafe era Marcel, ma tutti lo chiamavano Max) frequenta le scuole primarie e il liceo a Roman, e dopo la maturità va a Parigi per studiare proprio medicina... Ma, come detto, sarà la medicina a studiare lui, da quella visita del 1928. Tre sanatori sono le tre stazioni della sua via crucis, una passione durata dieci anni. Ma le braccia e soprattutto la mente di Max continuano a funzionare in modo splendido. Da qui i suoi rapporti epistolari con Gide, Breton, Heidegger, e con Ilaire Voronca, poeta romeno naturalizzato francese, con lo scrittore e drammaturgo romeno Mihail Sebastian e con altri intellettuali. Da qui, insomma, la sua terza vita: gli articoli, le traduzioni, alcune novelle, la raccolta di poesie Corp transparent (1934). Da qui, nella casa alla periferia di Roman che è il suo Golgota, la rivisitazione della condizione verticale, da «normale», che origina Accadimenti nell'irrealtà immediata (1936).
Questo libro, tradotto da Bruno Mazzoni, fu il primo di Max pubblicato in Italia, da Keller, nel 2012. «Ero un ragazzo alto, magro, pallido, col collo sottile che fuorusciva dal bavero troppo ampio del giubbotto. Le lunghe braccia penzolavano come degli animali appena scuoiati. Le tasche straripavano di carte e oggetti». L'ipersensibilità di Max è la sua sana malattia che lo porta a mescolare e amplificare, con modalità di taglio surrealista e onirico, tutto ciò che sperimenta: il sesso con Clara, l'amicizia con Walter e con Paul, le passeggiate che potremmo definire bergmaniane nei suoi posti delle fragole, cioè un circo e un teatro deserto. A ciò si aggiunge, in una straziante premonizione a posteriori, questa frase: «Una volta, mentre mio padre mi raccontava ricordi della sua infanzia, gli chiesi quale fosse stato il suo desiderio segreto più ardente e lui mi rispose che aveva desiderato più di ogni altra cosa possedere un veicolo meraviglioso, in cui starsene sdraiato, che lo portasse in giro per tutto il mondo»... È l'anello di congiunzione fra la prima e la seconda vita di Max, la prefigurazione della barella doccia che lo accoglie, diciannovenne, senza più lasciarlo andare.
È la rotazione di 180 gradi che ci porta, da queste memorie deambulanti in cui ci pare di udire la voce in prosa dei racconti di Rilke e di percepire sulla pelle la claustrofobia di Kafka, alla condizione di passeggero involontario, di allettato con stampato addosso l'invisibile ma indelebile marchio «fine pena mai». Siamo, ora, in quei Cuori cicatrizzati del 1938 che sempre l'editore Keller, e sempre guidato dalla salda mano di Bruno Mazzoni, manderà nelle librerie domani (pagg. 237, euro 15,50). Vale a dire che siamo nelle memorie del sottosuolo del «secondo» Max. Lo scenario, che immediatamente ci fa pensare alla Montagna incantata di Thomas Mann e a Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino, si sposta a Berck, in Francia, dove l'oceano Atlantico va a intrufolarsi nella vecchia Europa, dove la gente, d'estate, scorrazza sulle spiagge e organizza allegre serate a base di buon pesce e buon vino... Qui Max si dà il nome di Emanuel, quasi a tenere la giusta distanza fra vita vissuta e vita raccontata. E alla persona si affianca il personaggio. Anche lo stile muta: dal filtro introspettivo attraverso cui passava tutto in Accadimenti nell'irrealtà immediata, dove l'idea chiave era quella di un mondo percepito come un museo delle cere, quindi un mondo imitazione del mondo, si esce, a dispetto della reclusione ospedaliera, per andare incontro agli altri. Emanuel non è né un Hans Castorp catturato dagli ingranaggi della macchina mortale prima della Grande guerra, come in Mann, né, come il protagonista del romanzo di Bufalino, un reduce della Seconda guerra mondiale sbattuto in una nuova trincea. Consapevole del proprio destino, ne registra con precisione, nell'arco di un anno, il tragitto che lo conduce di nuovo all'amore, di nuovo all'amicizia, di nuovo alla momentanea condivisione di brevi itinerari in una locanda, lungo il litorale, addirittura in una momentanea fuga. Durante le passeggiate in carrozza, aiutato da un infermiere, o immobile nel suo posto in camera, stila, come un monaco medievale, la cronaca di un'abbazia dimenticata da Dio. La seconda vita di Max-Emanuel è il compimento della prima vita di Max Blecher. La magia della parola, che non abbandona mai i grandi scrittori, gli è sempre fedele compagna. E spinge la barella doccia in alto, molto in alto, nel limpido firmamento della Letteratura.
DANIELE ABBIATI, IL GIORNALE, 25/1/2018
Lo studente in sanatorio sogna l’amore ma resta imprigionato nel gesso.
Le disavventure erotiche ed esistenziali del giovane Emanuel in una “montagna incantata” di rottami umani e cuori cicatrizzati
LA STAMPA - TUTTOLIBRI, 3 FEBBRAIO 2018 | LUIGI FORTE
Forse solo nella scrittura Max Blecher riuscì a trovare pace. Metteva a nudo la sua vita di dolore e offriva al suo corpo martoriato il ruolo di protagonista nell’esperienza del mondo. Non aveva ancora vent’anni quando a Parigi, dove si era recato per studiare medicina, gli diagnosticarono una tubercolosi spinale che lo costrinse a lunghi soggiorni in sanatorio in Francia, Svizzera e Romania dov’era nato nel 1909 in una famiglia della piccola borghesia ebraica di provincia. La malattia non gli lasciò scampo, ma nei dieci anni seguenti fino alla morte nel 1939, scrisse racconti, saggi, un libro di poesie e tre romanzi che il nazismo prima e il comunismo poi bandirono dalla scena letteraria, dove pure era riuscito ad affermarsi.
Aveva un debole per il surrealismo e alle sue opere affidava il compito – come scrisse in una lettera - di «trasformare in letteratura l’alta tensione che emana dalla pittura di Dalí».
Del resto fin dal suo primo romanzo del 1936, Accadimenti nell’irrealtà immediata (Keller, 2012) lo scrittore si avventura fra incubi e allucinazioni alla ricerca di una vita autentica oltre la superficie compatta e razionale delle
cose. Il mondo ha un aspetto troppo comune per quel giovane che ama l’imprevedibilità del pensiero. Il suo sguardo è nutrito di vertigine ma anche di profonda sensualità tanto da far dire alla conterranea Herta Müller: «Ciò che rende lo sguardo di Blecher così penetrante è l’eroticità che risiede e langue in ogni cosa».
Lo scrittore recluso nella malattia e trasformato in un corpo senza futuro dialoga per lettera con grandi personaggi come Breton, Gide, Heidegger, mentre il drammaturgo Ionesco lo definisce «un Kafka romeno ». La sua prosa richiama autori come Bruno Schulz, Robert Walser e perfino Thomas Mann, soprattutto per il romanzo Cuori cicatrizzati del 1938, che ora l’editore Keller propone nella versione di Bruno Mazzoni, ambientato nel sanatorio di Berck, una località francese sul mare del Nord.
Ma il destino del protagonista, lo studente di chimica Emanuel affetto da tubercolosi ossea, ha ben poco da spartire con quello del giovane ingegnere Hans Castorp nella Montagna incantata. Certo anche nel romanzo autobiografico di Blecher c’è un clima di serra lambito da un alito di morte e ravvivato dal chiacchiericcio di anime peregrine, ma manca il complesso panorama epocale offerto da Mann, la mappa di un’intera civiltà fagocitata dalla follia.
L’avventura di Emanuel ha un risvolto paradossale e allucinante: si muove tra rottami umani, fra persone vive eppure come morte nelle loro posture rigide, mummificate. Ma c’è anche chi, come il signor Quitonce, cammina reggendosi su due bastoni e scalciando ad ogni passo in un’esibizione un po’ farsesca, o chi come Zeta ha i piedi dentro un blocco di gesso, o Roger e Cora che flirtano su due barelle doccia affiancate.
Mentre la nuova arrivata, Isa, legge Lautréamont e medita sul cuore cicatrizzato dei malati che le molte ferite nel corso della vita hanno reso del tutto insensibile. Non mancano neppure i più fortunati che hanno sconfitto la malattia: il giovane Ernest e l’argentino Tonio che smania per la polacca Wandeska. Nessuno di loro vuole però tornare nel mondo dei sani, perchè il sanatorio è un veleno insidioso che entra nel sangue e chi vi ha vissuto «non si ritrova da nessuna altra parte».
Anche Emanuel viene ingessato dal collo fino all’anca e trasformato in un manichino. Tuttavia la vita esige ancora la sua parte e così la sofferenza aumenta: i conati d’amore del giovane per la graziosa Solange degenerano in una goffa, tragicomica performance, in un «simulacro pietoso». La ragazza stringe inutilmente un busto di gesso mentre il compagno annaspa fra il desiderio crescente e l’impotenza. Non bastano le gite in calesse sulla spiaggia o nelle locande dei dintorni a cancellare il vuoto intorno a sé e l’indifferenza crescente. Una parte della sua vita, libera ed essenziale, è ormai sparita per sempre. Blecher trasforma la disperazione in un gioco letterario e il mondo in nuda fisicità, popolato da sagome e corpi che sono l’unico paradigma della precaria situazione esistenziale, dell’avventura quotidiana nell’irrealtà.
Nel sanatorio di Berck non mancano né gentilezza né amore o amicizia, ma tutto stride e s’ingolfa nel delirio di corpi malati, in un orizzonte plumbeo in cui a volte, come confessa Ernest all’amico, «sei la parte nascosta delle cose (…) sei una forma più effimera e più sconnessa della mera materia immota». Lì si è accumulata tutta la malattia del mondo, gli amici scomparsi in quei pochi mesi e i fantasmi della disperazione. A Emanuel resta solo un addio, e il fuggevole bacio di Solange prima della partenza.
AZIONE, 12/2/2018
http://www.azione.ch/cultura/dettaglio/articolo/in-quella-gabbia-che-e-il-proprio-corpo.html
PREZZO: €16,50
DATA USCITA: APRILE 2016
BROSSURA | PP. 288 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL TEDESCO ELISA LEONZIO
Amore, musica e destino tra le mareggiate del “secolo breve”.
In un villaggio di campagna nel nord della Germania all’inizio del Novecento vive Ruven Preuk, un ragazzo con un’incredibile predisposizione per la musica. Tutto questo, invece che facilitargli la vita, gliela complica tanto da indurlo a lasciare la piccola comunità in cui è nato e cresciuto per raggiungere Amburgo dove studia musica con il vecchio maestro di violino Goldbaum, nel ghetto ebraico. Ad animarlo c’è la fiducia in un futuro radioso nel quale potrà dimostrare al mondo il proprio talento così come l’amore per la bella Rahel. La vita però intralcia il cammino di Ruven, il quale deve superare mille impedimenti e attraversare le turbolenze del Novecento, le sue guerre, le tragedie di fronte alle quali anche i violini sono costretti a tacere e la musica sembra non potere nulla.
Da qualche parte c’è un briciolo di felicità è allo stesso tempo uno straordinario romanzo sul Novecento e sui mille volti dell’Europa, una profonda indagine dell’essere umano e un racconto di grande intensità che pone il lettore a tu per tu con i temi essenziali della grande letteratura.
Amore, musica e destino tra le mareggiate del “secolo breve”.
Svenja Leiber è nata a Amburgo nel 1975 ed è cresciuta nella Germania settentrionale.
Ha vissuto per breve tempo in Arabia Saudita. Ora vive a Berlino insieme al marito e ai loro due figli. Nel 2005 ha pubblicato la raccolta di racconti, Büchsenlicht, e nel 2010 il romanzo Schipino. Ha potuto godere di diverse borse per scrittori finanziate da importanti fondazioni culturali tedesche e ha vinto numerosi premi letterari, tra cui il Werner-Bergengruen-Preis e l’Arno-Reinfrank-Literaturpreis. Questo è il suo primo romanzo pubblicato in Italia.
Un libro avvincente, un po’ romanzo di formazione, un po’ romanzo artistico e anche affresco del secolo, ma soprattutto è un libro su ciò che significa non poter realizzare i propri desideri. DIE WELT
Un romanzo suggestivo, urgente che accompagna il lettore ben oltre la lettura, ripresentandosi non di rado a fargli visita nella vita quotidiana.
DEUTSCHLANDRADIO KULTUR
PREZZO: €15,50
DATA USCITA: SETTEMBRE 2015
BROSSURA | PP. 227 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DALL'UCRAINO DI FRANCESCA FICI
La felicità bussa un giorno alla sua porta e ha il viso di Ivan, un eccentrico suonatore di drimba che riesce a dare sollievo alla sua testa e forma alle sue parole. Ma il passato è un invitato scomodo alla tavola di Darusja e non ammette ospiti inattesi...
Rassegna stampa
DARUSJA LA DOLCE
TOURING | dicembre 2015 |
La Bucovina è una regione oggi in parte compresa dentro i confini dell’Ucraina che ha vissuto e attraversato tutti i travagli del Novecento: prima parte dell’Impero asburgico, poi annessa dalla Romania, conquistata dai nazisti e infine assegnata all’Unione Sovietica, prima di diventare una delle province occidentali dell’Ucraina indipendente. La vita della silenziosa Darusja racconta il destino di una regione periferica d’Europa, dove la storia ha combattuto la sua guerra contro la normale vita di ognuno.
LA DOLCE DARUSJA E L'AMORE NEGATO A CHI È DIVERSO
IL CITTADINO | 10 dicembre 2015 | Marco Ostoni
Un’altra storia di confine, confine geografico (quello della Bucovina, terra dell’Est europeo ancora oggi divisa fra Romania e Ucraina), ma anche confine di status: fra chi è “normale” e chi, almeno nell’accezione comune, non lo è ma porta impresse le stimmate della follia. E dunque non può avere diritto alla sua dose di felicità, a partire da quella più importante: amare ed essere amati. Marja Matios, scrittrice 55enne originaria di Rostock ma residente a Kiev, imbastisce per Keller (nella collana “Confini”) un breve romanzo di grande potenza, che sotto la patina di una scrittura solo all’apparenza leggera con tratti all’insegna del grottesco, cela lo strazio di una donna - Darusja - e di una famiglia, condannate all’infelicità da un mondo che sembra non aver pietà per i “diversi” e che non tollera che questi possano godere, sia pure per poco, di un pizzico di gioia. Come quella che a un certo punto piomba, inattesa, nella vita di Darusja, che vede improvvisamente un uomo rude e strambo ma dal cuore grande – Ivan - prendersi cura di lei, dei suoi dolori e delle sue paure. Una parentesi breve e toccante, la loro, cui metteranno fine le cattiverie degli abitanti del villaggio, rosi da un’invidia stolida e crudele, figlia della paura e del pregiudizio. Ma nella carne ferita e nella vita aspra di Darusja, nei furibondi mal di testa che la affliggono e nel suo mutismo rassegnato (rotto soltanto davanti alla tomba del padre), si nasconde in realtà il destino di un intero Paese, di una regione che alla fine della Prima guerra mondiale è spaccata in mille fronti, rivendicata da Ucraina, Romania, Polonia, Germania e Russia. Una regione destinata a non avere pace e futuro, proprio come la vita di Darusja. Con uno stile unico e potente, qua e là spruzzato anche di amara ironia, l’autrice riesce a descrivere questa carne ammaccata dalla storia, disegna il ritratto di Darusja e degli anziani che incarnano il XX secolo in Europa e la guerra che oggi, ancora, mette a rischio quell’angolo di mondo non così lontano dal nostro. Lo fa in pagine come questa, tradotte con grande perizia da Francesca Fici: «... Darusja giaceva a occhi chiusi e ascoltava Ivan quando a un tratto il suo corpo fu percorso da un fremito... Come delle piccolissime bollicine sulla superficie liscia di un fiume in estate, quando comincia a venir giù una pioggerella leggera. Sentì tremare ogni venuzza e pensò che non era stupida, ma soltanto dolce, come era dolce quel fremito febbrile che non aveva mai provato. Il farfuglio di Ivan giungeva nella sua testa come attraverso una nebbia spessa, fino a lontananze e profondità sin allora sconosciute, di cui Darusja ignorava persino l’esistenza. In quel momento non provava né vergogna né paura, e un filo sottile sottile, come il sentierino lunare sull’acqua delle vasche, guizzò tra lei e Ivan e gridò alla sua anima dolente di rispondere all’appello... E quando le mani ruvide di Ivan strinsero il capo silente di Darusja, da lei eruppe qualcosa, come un gemito o un ululato o un grido di gioia, che avrebbe potuto assoggettare il mondo intero».
DARUSJA LA DOLCE
GIOIA | gennaio 2016 | Monica Ceci
Darusja vive in un villaggio della Bucovina diviso da un fiume, di qua i rumeni, di là i polacchi. Ma prima c'erano gli Asburgo, poi sono arrivati i russi, poi i tedeschi, poi sono tornati i russi. I confini della terra cambiano più in fretta della vita dei suoi abitanti. Così è la vita di Darusja, un avanti e indietro tra ricordi e dolori. Dicono che è un po' matta, quando le offrono le caramelle ha una crisi epilettica. Alla fine capirete perché.
PREZZO: €12,00
DATA USCITA: OTTOBRE 2008
BROSSURA | PP. 128 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO PAOLO VERTIC
PREZZO: €15,00
DATA USCITA: OTTOBRE 2014
BROSSURA | PP. 224 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL TEDESCO FRANCO FILICE
György Dalos è nato nel 1943 a Budapest. Perse il padre nel 1945 in un campo di lavoro dove era stato internato in quanto ebreo e ha trascorso l'infanzia con i nonni. Dal 1962 al 1967 ha studiato Storia a Mosca. Ritornato a Budapest ha vissuto tutti gli eventi significativi dell'Ungheria degli ultimi quarant'anni.
Nel 1977 è tra i fondatori del movimento di opposizione al regime comunista ungherese. Nel 1988 e 1989 è co-editor del foglio clandestino di opposizione «Ostkreuz» della Germania Est. Dal 1995 al 1999 Dalos è a capo dell'Istituto per la Cultura ungherese a Berlino e da allora vive lì e lavora come editor freelance e redattore. Romanziere e saggista, ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui l'Adelbert von Chamisso, la Medaglia Presidenziale d'oro della Repubblica di Ungheria e nel 2010 il Leipzig Book Award for European Understanding.
PREZZO: €16,00
DATA USCITA: SETTEMBRE 2014
BROSSURA | PP. 336 | COLLANA RAZIONE K
TRADUZIONE DAL RUSSO E TEDESCO SIBYLLE KIRCHBACH
Le proteste di piazza Maidan in Ucraina, la vita quotidiana di una famiglia in un Paese in subbuglio, viste attraverso gli occhi e la narrazione coinvolgente e puntuale di uno dei maggiori scrittori del nostro tempo: Andrei Kurkov.
I suoi diari sono uno strumento prezioso per entrare direttamente in piazza Maidan, nel vivo delle manifestazioni, dei preparativi, dei momenti successivi in cui si contano le ferite, ma scopriamo anche i ricordi dell'autore, la storia dell'Ucraina passata e recente.
La voce narrante di Kurkov è naturale, spontanea, ricrea atmosfere, svela retroscena, vive di un forte senso dell'amore per il Paese, i suoi problemi, le persone che cercano di cambiare le cose.
Un libro utilissimo per comprendere cosa sta accadendo oggi sul confine orientale dell'Europa.
Dall'autore più internazionale e tradotto dell'Ucraina un intelligente e appassionato resoconto dei fatti di piazza Majdan e dello stato delle cose in Ucraina.
Un libro unico sul mercato editoriale in questo momento e in via di edizione in tutta Europa.
LA STAMPA
Un resoconto di personale esperienza dal cuore della rivolta e un emozionante documento storico BERLINER ZEITUNG
Chiunque lo legge, capisce molto di ciò che non appare dai telegiornali o dai giornali: come una rivoluzione tocca la vita quotidiana, come si sente, come cambia le abitudini ... è molto interessante perché quando scrive l'autore non sa ancora come andranno gli eventi... FALTER
È autore di tredici romanzi (che hanno spesso protagonisti animali: un topo, un camaleonte, un pappagallo...) e di cinque libri per bambini. Il suo lavoro è tradotto in decine di lingue tra cui inglese, giapponese, francese, cinese, svedese ed ebraico. I suoi romanzi sono editi in Italia per Garzanti: L'angelo del Caucaso, I pinguini non vanno in vacanza e L'ultimo amore del presidente.
A settembre uscirà per Keller il reportage "Diari ucraini" e a ottobre "Il controllore del popolo" che ci conduce con Pawel Dobrynin in un viaggio attraverso l'Unione Sovietica assieme a personaggi insoliti. Un grande romanzo "russo" condito con la solita fantasia e humour nero di Kurkov.
DONNA MODERNA
2 SETTEMBRE 2014
FESTIVAL PRENOTA IL TUO POSTO IN PRIMA FILA A MANTOVA E PORDENONE
QUI INCONTRI I GRANDI SCRITTORI
Festivaletteratura dal 3 al 7 settembre
Con 370 ospiti e centinaia di eventi, quello di Mantova è uno degli appuntamenti letterari piìi importanti d'Europa. «Una fucina di nuovi talenti, dove scoprire nomi poco noti al grande pubblico» dice Dario Fertilio, scrittore e critico del Corriere della Sera. Consigliatissimi l'olandeseTommyWieringa, paragonato al J.D. Salinger de II giovane Holden, e la brasiliana Adriana Lisboa, tra gli autori under 40 più quotati in America Latina.
IL CONSIGLIO «Da non perdere l'ucraino Andrei Kurkov» dice Fertilio. «In Diari ucraini racconta il suo Paese agli stranieri al di là dei cliché giornalistici e politici. Ha uno stile carico di humour nero e surrealismo. Un esempio? I protagonisti dei suoi libri spesso sono animali: un pinguino, un camaleonte, un pappagallo... Kurkov fa viaggiare nella realtà post sovietica con la fantasia».
[...]
www.festivaletteratura.it
Valeria Colavecchio
PREZZO: €12,00
DATA USCITA: APRILE 2013
BROSSURA | PP. 112 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO ROBERTA GADO
Un anno, un'infanzia che sembra consumarsi nell'arco di poche stagioni, l'intera esistenza di un villaggio in una stretta valle montana chiusa solo all'apparenza. Qui il mondo esterno si presenta con i treni, il postale e la tivù, ma soprattutto con una lingua, il tedesco, che si insinua nel romancio locale portandovi i fermenti di un mondo che cambia.
Lo straordinario testo di Arno Camenisch ci regala una singolare epica alpina in cui l'innocenza e l'incoscienza dell'infanzia incrociano la quotidianità di un centro popolato da poco più di quaranta anime.
Case mai chiuse a chiave perché gli abitanti si conoscono tutti, ciascuno ha un suo ruolo e partecipa alla storia comune con la propria lingua, catturata dall'autore in una scrittura che nasce dall'oralità e ne mantiene forza e melodia. Ci fa ridere, commuovere e incuriosire descrivendo con gli occhi del piccolo protagonista stalle, animali, malattie e avventure in cui il dramma, la tenerezza e l'ironia si alternano.
Camenisch ci sorprende con storie senza tempo ed echi di una lingua, il romancio, che sembra nascere dalla pietra, risuonare nei boschi e sopravvivere al destino degli uomini.
Arno Camenisch (1978), nato e cresciuto a Tavanasa nei Grigioni, scrive in tedesco e in romancio sursilvano. Ha studiato all'Istituto svizzero di letteratura di Bienne, città in cui vive e lavora. Per l'editore Urs Engeler ha pubblicato nel 2009 il volume Sez Ner, seguito nel 2010 da Hinter dem Bahnhof (Dietro la stazione) e nel 2012 da Ustrinkata.
I testi di Camenisch sono tradotti in diciotto lingue. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Hölderlin (sezione esordienti) nel 2013, il Premio federale di letteratura nel 2012, il Premio bernese di letteratura nel 2011 e nel 2012, nonché il Premio Schiller ZKB nel 2010. La traduzione italiana di Sez Ner è uscita nel 2010 per Casagrande a cura di Roberta Gado mentre Dietro la stazione e Ustrinkata sono inseriti nel catalogo Keller.
SATISFICTION
23 aprile 2013
DIETRO LA STAZIONE
Uno non se l'aspetta così, la Svizzera. Il primo pensiero, ingenuo e stereotipato quanto si vuole, certamente senza senso, ma pur sempre il primo, è quello di un paesaggio di austere banche e giardini ordinati, benestanti agricoltori che rasano i prati con la livella e cittadini cosmopoliti e poliglotti. Mentre in "Dietro la stazione" il villaggio descritto da Arno Camenish (34enne scrittore nato e cresciuto nel canton Grigioni) racconta di una Svizzera diversa, lontana da stereotipi senza senso e incredibilmente vicina invece alla realtà della montagna retica. Camenish non parla della montagna lussuosa e sportiva dei vacanzieri invernali, degli alberghi di Sankt Moritz e delle piste di Pontresina; non descrive neanche paesaggi da scatola di cioccolatini: racconta di una frazione senza nome con quaranta abitanti, tredici cani, sei gatti e quattro idranti. Un villaggio alpino con i suoi personaggi fuori dal comune (c'è il matto del paese, il capostazione che fa le parole crociate, la zia che gestisce l'hotel Helvezia, il nonno con sette dita e mezzo che fa rastrelli) che sono gli stessi che si potrebbero trovare qualsiasi paese di campagna in giro per il mondo. Piccoli bozzetti, miniature che messe una in fila all'altra costituiscono un affresco spesso divertente, spesso atroce, sempre realista di una realtà alpina chiusa solo in apparenza, con il Postal e il treno che la uniscono al mondo cittadino, quella Coira dove gli abitanti li considerano Schaissoberländers, montanari di merda.
Se le storie raccontate sono universali la lingua usata da Camenish è diversa e unica. Colorata e ricca, usata da un narratore bambino nel suo percorso di scoperta del piccolo mondo totalizzante del suo borgo alpino, una lingua che riesce ad essere ritmica e fluente, riprendendo il parlato, ma anche poetica. Nella versione originale è un pastiche di romancio sursilvano e tedesco, con inserti di italiano e francese. Per capirci, se dovessimo scrivere in romancio una biografia da quarta di copertina di Camenish verrebbe così: Arno Camenisch è naschì l'onn 1978 a Tavanasa en Grischun e scriva en tudestg e rumantsch sursilvan. E gli echi e la musicalità alpina del romancio si ritrovano tutti nella traduzione di Roberta Gado, che ha maneggiato una lingua confederata invertendo i pesi e riuscendo a mantenere l'atmosfera e il piacere della lettura. Uno non se l'aspetta così, la Svizzera.
Dietro la stazione è il secondo atto di una trilogia grigionese che ha avuto un buon successo sia in Svizzera sia all'estero. Il primo volume, Sez ner, è uscito nel 2010 per Casagrande, mentre il terzo Ustrinkata uscirà sempre da Keller entro la fine dell'anno.
T. Mantarro
INTERNAZIONALE
10- 17 MAGGIO 2013
CRONACA ROMANCIA
Dobbiamo all'editore Keller di Rovereto molte buone scoperte, e ora anche questo gioiello di uno scrittore dei Grigioni, piccola patria appartata e montana che confina con la nostra e che la nostra ignora. Vi si parla il romancio, e Camenisch, 35 anni, scrive in un tedesco misto di romancio, tradotto genialmente in un italiano misto di tedesco e romancio da Roberta Gado. Di lui conoscevamo Sez Ner (Casagrande), storie strambe e crude di quattro pastori su uno sperduto pizzo di monte, ma qui è tutto un paese (40 anime!) che vive attorno a un restorant che fa da osteria e centro del mondo a venirci narrato da un bambino di cui non sappiamo l'età (tra i quattro e i sei anni?) con un linguaggio colorito, immediato, comico e sempre sbalordito. Questa "cronaca" di più stagioni è tra le cose più belle sull'infanzia che leggiamo da anni, scritta dal punto di vista di un'infanzia vera (o di un giovane che la ricorda bene e che ha forse letto Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas).
Di storia in storia e per brevissimi capitoli, sole e neve, natura e cultura, vita e morte, umani e animali, indigeni e immigrati (una coppia di italiani), la vita scorre come una continua sorpresa da godere, soffrire, ammirare, e la lingua ha il fascino delle lingue di confine, somiglia nei suoi incroci e connubi a quello per la vita.
Goffredo Fofi
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: LUGLIO 2011
BROSSURA | PP. 160 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL FRANCESE SILVIA TURATO
Cosa c'entra zia Maria con la Guerra civile spagnola? È possibile, come crede lei, che tutto sia accaduto a causa sua? Oppure si tratta di uno strano scherzo del destino che solo ora, dopo oltre settant'anni, ci viene raccontato e svelato?
Maria è una monaca di clausura. Ha lasciato in tutta fretta il convento benedettino degli Angeli a Pedralbes, prelevata e protetta dal cognato Francisco che la nasconde in casa propria per salvarla dalle rappresaglie di anarchici e comunisti nei giorni convulsi del luglio 1936.
Nel caldo di quell'estate iberica ritrova il nipote Félix: un giovane come tanti altri che tira di boxe, frequenta i circoli anarchici, è obbligato ad andare a lezione di pianoforte e ama fotografare con la sua Leica, perché quella macchina "non mente mai" e riprende anche quello che l'occhio non vede nel mirino.
Inizia così una storia di affetti travolti da una sorte avversa: la partenza per il fronte, la pazzia, la perdita degli ideali, la sconfitta, i ricordi esposti all'azione del tempo, e persino gli umori di un Dio che vede tutto...
Finalista del Premio Herralde nel 1998 e secondo finalista del Premio Planeta nel 2000, Jordi Bonells torna alla letteratura con Dio non appare in foto, pubblicato in varie lingue, e ci regala un romanzo che partendo da una storia famigliare diventa occasione per parlare del destino che segue il proprio corso, indifferente agli uomini.
Jordi Bonells nasce a Barcellona nel 1951. Nel 1970 lascia la Spagna per la Francia dove diventa docente di Letteratura spagnola all'università. Tra i suoi romanzi anche La seconda scomparsa di Majorana (Keller, 2010), affascinante inchiesta-romanzata sulla scomparsa e fuga del noto fisico siciliano in Argentina.
ESTRATTO
"Per tutta la mia vita non ho amato che i crani" pensa lui arricciando il naso bitorzoluto pieno di punti neri. "Mi hanno ben ripagato d'altronde, i crani. Ma perché, cavolo, a fine carriera, devo finire faccia a faccia con il cranio dell'amore? Ero tranquillo con il mio fumo, con i miei libri, con i miei pazzi ed ecco che lei arriva improvvisamente nel mio ospedale... Eppure, Dio sa quanti ne ho visti di crani! e di protuberanze! frontali, parietali, occipitali, sfenoidali... Non avrei mai immaginato che l'amore potesse prendere anch'esso una forma ossea autonoma, non mi aveva mai sfiorato l'idea, fino al suo arrivo... Benedetta Maria, sei malata d'amore" mormora, geloso di quel ragazzo che si strofina energicamente davanti a lui i capelli con l'asciugamano bianco che gli ha portato, anche il viso si strofina, e il collo e le braccia, ignorando quel che avviene intorno a lui e anche in lui.
STAMPA
Uno scrittore lontano dalla mediocrità dominante, ENRIQUE VILA-MATAS, EL PAÍS
L'opera di Jordi Bonells stilla letteratura, BABELIA - EL PAÍS
Sull'arte di scomparire, Bonells supera tutti gli autori, LA RAZON
Un'affascinante e acuta riflessione sull'identità, LE FIGARO
Un labirinto che apre e chiude percorsi, LE MONDE
Affascinante come una luce nelle tenebre, TELERAMA
Una storia per tempi inquieti, LIVRES-HEBDO
PUBBLICATO IN SPAGNOLO, FRANCESE, ITALIANO
PREZZO: €16,00
DATA USCITA: DICEMBRE 2014
BROSSURA | PP. 304 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO ANGELA LORENZINI
Annie ha dovuto imparare ben presto che la vita degli adulti non sempre è migliore di quella dei bambini. Nella sua famiglia le cose sono andate in modo un po’ diverso rispetto alle altre e oltre a crescere senza un padre, la giovane Annie ha imparato a prendersi cura di una madre fragile e a essere presente ogni volta che c’è bisogno di aiuto.
Così non si spaventa quando si ritrova da sola a pensare a tutto e tutti, compreso il campo di famiglia con gli alberi di amarene pronti per il raccolto, e nemmeno quando alla fattoria si presenta Paula, una giovane ragazza incinta fuggita di casa...
Un incontro che cambierà per sempre la vita di entrambe.
Dolce come le amarene è un romanzo pieno di umorismo e sentimento che s’interroga sull’essere genitori e sul diventare adulti. Un’altra storia indimenticabile dall’autrice de La felicità di Emma.
Claudia Schreiber vive e lavora a Colonia. È scrittrice, sceneggiatrice e ha collaborato con la radio e la televisione tedesca (ZDF). Con il romanzo La felicità di Emma (Keller) ha ottenuto uno straordinario successo di critica e pubblico imponendosi all’attenzione internazionale.
Dolce come le amarene è il suo secondo lavoro tradotto in Italia.
ANNIE AMA IL FRUTTETO
MARIE CLAIRE | novembre 2014 | Marta Cervino
Annie ama il frutteto. Anche perchè con una famiglia come la sua - una madre che sceglie sempre l'uomo sbagliato e un nonno che fugge per amore -, la vita non è semplice. E infatti presto lei si troverà a doversi occupare da sola sia del raccolto di amarene che di una ragazzina scappata dai genitori, che le "invade" casa. Un romanzo da assaporare come un dessert agrodolce.
SCHREIBER, PAGINE E STAGIONI DELLA VITA
CORRIERE DEL TRENTINO | 20 dicembre 2014 | Gabriella Brugnara
«Il Natale fu come sempre, tutto secondo l'ordine prestabilito e identico all'anno prima, ogni singola decorazione allo stesso posto e ogni rituale nell'identica sequenza: il concerto d'Avvento e l'orribile merluzzo che non piaceva a nessuno ma che faceva parte della tradizione. Un presepio nell'ingresso, benché in casa nessuno credesse che nella stalla fosse nato un redentore. E la stella morava rossa, gigante, alla finestra, illuminata dall'interno. Ogni barcaiolo dell'Elba poteva vederla splendere là in alto». Così vanno da sempre le cose a casa di Paula, adolescente i cui genitori «sembravano più che altro i nonni della ragazza, lui professore al politecnico di Dresda, lei una signora sottile, curata, una casa da ricchi, tre piani, enormi vetrate ovunque». Un'apparente «normalità», basata su rapporti di superficie, pronta a sgretolarsi: Paula aspetta un bambino, non lo puà dire ai suoi, e scappa di casa. È così che nel suo vagare raggiunge la fattoria di Annie, ragazza che ha dovuto crescere in fretta per prendersi cura di una madre fragile. «Un ciliegio ha bisogno dell'inverno» le aveva spiegato il nonno. «Se il suo legno non sta al freddo per settimane e settimane, non darà frutti, d'estate. Accetta anche tu le gelate allo stesso modo. Chi non conosce il dolore non realizzerà mai niente di prezioso e duraturo». E il dolore Annie lo conosce, ma nell'immedesimazione con la natura trova la pienezza e, al contempo, la fertilità dell'immaginazione.
PREZZO: €15
DATA USCITA: IN LIBRERIA IL 29 ottobre 2016
BROSSURA | PP. 192 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL FRANCESE DANIELA ALMANSI
Una scatola di fotografie, il sapore di una pastina ai lamponi, una cartella clinica, qualche testimonianza strappata a fatica a un parentado riluttante. Sulla base di pochi indizi sparpagliati la voce narrante di Domani è domenica tenta di ricostruire i frammenti di una storia di famiglia sbriciolata da anni di menzogne e silenzi e offre, al contempo, uno scorcio di storia europea quasi dimenticata: l’Istria italianizzata, il destino degli sloveni, la guerra dei Balcani.
In una Ginevra tra gli anni Sessanta e Settanta, quando tutto sembra pronto per le vacanze di famiglia, una giovane madre si toglie la vita. La figlia, all’epoca bambina, cercherà poi di comprendere il dramma dando voce alle storie dei due genitori che ben presto si fanno anche ritratto di un’epoca e dell’Europa. Da un lato una donna bellissima, elegante, bohémienne, che inspiegabilmente rinuncia alla propria indipendenza per un matrimonio sbagliato. Dall’altro lato invece un padre, immigrato sloveno, fuggito dalla Jugoslavia di Tito che nella sua storia porta i traumi di una nazione intera.
AUTORE
Nata a Ginevra da padre sloveno italianizzato e da madre svizzera, Sandrine Fabbri ha lavorato a lungo come giornalista culturale. Dopo aver vissuto a Zurigo e Parigi, è tornata nella sua città natale dove insegna francese e comunicazione in un istituto tecnico commerciale.
Ha tradotto Lukas Bärfuss e Sibylle Berg. Il suo romanzo Domani è domenica ha ricevuto il premio Pittard 2010 ed è stato tradotto anche in tedesco.
STAMPA ESTERA
Un romanzo dalla bellezza nera e brutale. L’HEBDO
Sandrine Fabbri ha dato vita a una narrazione di grande intelligenza poetica.LE COURRIER
Sandrine Fabbri racconta un pezzo di storia europea, terribile quanto quasi dimenticata: l’Istria italianizzata, i Balcani sconvolti dalla guerra, la condizione di rifugiato. LE MONDE
PREZZO: €19
BROSSURA | PP. 608 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL TEDESCO R. GADO - R. CRAVERO
Un libro commovente. Un monumento ai ragazzi di allora. Un pezzetto di magia. STEN NADOLNY
Daniel, Mark, Paul e Rico sono cresciuti come “pionieri” nella Germania dell’Est.
Sono gli ultimi anni prima della caduta del Muro e sogni e illusioni sono amplificati dal mito dell’Ovest a portata di mano, tanto più dopo gli eventi dell’89.
Con la Svolta – la riunificazione delle due Germanie – anche la loro vita cambia trasformandosi in una folle corsa fatta di furti d’auto, alcol, paura e rabbia.
Clemens Meyer ci regala un romanzo sulla generazione a cavallo della caduta del Muro raccontata alla Trainspotting con la schiettezza di chi allora cercava di sopravvivere e di inventarsi un futuro nel Selvaggio Est.
Saltando da un piano temporale all’altro, l’autore ci presenta la Lipsia delle case occupate, degli incontri clandestini di boxe, degli hooligan, delle prime discoteche e delle bevute disperate con la profondità e la poesia di chi quegli anni li ha amati a carissimo prezzo, vedendo perdersi uno dopo l’altro i propri amici d’infanzia e sgretolarsi, a poco a poco, il mito dell’Ovest.
Un romanzo travolgente sui nostri tempi che ha dato voce alla generazione dell’Europa unita – anche quella che ne è stata travolta –, alla gioventù che affiora potente e ricca di sfumature. Un lavoro superbo, compassionevole, ma con una leggerezza meravigliosamente matura della narrazione e una straordinaria capacità di gestire emozioni, atmosfere e memoria.
AUTORE
Clemens Meyer è nato a Halle nel 1977 e vive a Lipsia. Il suo primo romanzo, Als wir traumten (Eravamo dei grandissimi, 2006) è ormai un libro cult. Nel 2015 ne è stato tratto l’omonimo film di Andreas Dresen presentato alla 65a Berlinale. Sono seguiti Die Nacht, die Lichter. Stories (2008), che gli è valso il premio della Leipziger Buchmesse, Gewalten. Ein Tagebuch (2010) e il monumentale Im Stein (2013), finalista al Deutscher Buchpreis. Nel 2015 Clemens
Meyer ha tenuto le prestigiose Frankfurter Poetikvorlesungen, pubblicate nel 2016 con il titolo Der Untergang der Akschn GmbH. Questa è la sua prima traduzione italiana.
Clemens Meyer ha ottenuto numerosi premi letterari.
Mainzer Stadtschreiber, 2016
Bremer Literaturpreis, 2013
Stahl-Literaturpreis, 2010
TAGEWERK-Stipendium der Guntram und Irene
Rinke-Stiftung, 2009
Preis der Leipziger Buchmesse, 2008
Clemens-Brentano-Preis der Stadt Heidelberg, 2007
Märkisches Stipendium für Literatur, 2007
Förderpreis zum Lessing-Preis des Freistaates
Sachsen, 2007
Mara-Cassens-Preis, 2006
Rheingau-Literatur-Preis, 2006
Einladung zum Ingeborg Bachmann-Wettbewerb, 2006
Nominierung zum Preis der Leipziger Buchmesse, 2006
2. Platz MDR-Literaturwettbewerb, 2003
Literatur-Stipendium des Sächsischen Ministeriums
für Wissenschaft und Kunst, 2002
1. Platz MDR-Literaturwettbewerb, 2001
IN QUARTA DI COPERTINA
L’ultima volta che lo vidi prima che partisse, Rico mi salutò dalla finestra con la mano. Sembrava piccolissimo. Avevo suonato il campanello giù al portone ma sua madre non mi aveva aperto. Così feci qualche passo indietro sulla strada e guardai in alto verso di lui, portando la mano alla testa come nel saluto dei pionieri. «Sempre pronti» sussurrai. Lassù alla finestra vidi Rico ridere. Solo un attimo, poi si girò e comparve sua madre che tirò le tende. Dietro di me una macchina suonò il clacson. Tornai sul marciapiede e mi avviai verso casa. Discesi la strada fino al parco, mi fermai di nuovo e mi voltai. Riuscivo ancora a vedere la finestra con le tende chiuse al terzo piano. Rico aveva riso quando gli avevo fatto il saluto dei pionieri giù in strada. Aveva riso anche se sarebbe dovuto andare via il mattino dopo all’alba. «Partenza alle sei e mezza» mi aveva detto il giorno prima, «in treno. Forte eh?», e anche allora aveva cercato di ridere.
RASSEGNA STAMPA
ERAVAMO DEI GRANDISSIMI. INTERVISTA A CLEMENS MEYER
MINIMA ET MORALIA, 24|11|2016
Gabriele Santoro
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: GENNAIO 2014
BROSSURA | PP. 192 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO SONIA SULZER
UN VIAGGIO NEL CUORE GHIACCIATO DELLA SIBERIA
PREZZO: €16,50
DATA USCITA: SETTEMBRE 2016 - NUOVA EDIZIONE
BROSSURA | PP. 368 | COLLANA RAZIONE K
TRADUZIONE DAL POLACCO MARZENA BOREJCZUK
LA LETTURA
Sembra un libro di viaggio in territori di grande fascino; ma è più di questo... (M. Zamboni)
Questa è la storia di un viaggio come nessun altro: Jacek Hugo-Bader si avventura attraverso la Siberia, da Mosca a Vladivostok, in pieno inverno. Viaggiando da solo su una jeep russa modificata, attraversa un continente che è grande due volte e mezzo l'America, pieno di banditi e dove le strade lo sono solo di nome.
Lungo la sua odissea, Hugo-Bader scopre grandi tragedie umane, ma anche un inatteso humour nero tra i pastori di renne, le tribù nomadi, gli ex hippy, gli sciamani, i senzatetto e i seguaci di alcune delle molte religioni arcane che ancora fioriscono in questa terra isolata e incredibile.
Jacek Hugo-Bader è nato a Sochaczew nel 1957, ha una moglie, due figli e due cani. è stato insegnante in una scuola per ragazzi in difficoltà, ha lavorato in un negozio di alimentari, caricato e scaricato treni, è stato pesatore in un punto vendita di maiali, consulente matrimoniale e ha gestito una società di distribuzione. Dal 1991 è reporter per la «Gazeta Wyborcza», il più importante quotidiano polacco.
Ha scritto numerosi reportage sull'ex Unione Sovietica, sull'Asia centrale, Cina, Tibet e Mongolia e vinto prestigiosi premi come il "Grand Press" nel 1999 e nel 2003, e il "Bursztynowego Motyla" nel 2010.
STAMPA ESTERA
I paragoni con Ryszard Kapuscinski sono inevitabili.
Io credo sia come lui, se non migliore. WENDELL STEAVENSON
Un reportage straordinario e compassionevole. METRO
Racconto ispirato di un'odissea nel cuore ghiacciato di un continente morente, in cui brillano esempi e storie di resistenza umana. THE TIMES
Assolutamente da leggere! SUNDAY TIMES
Divertente, illuminante e incredibilmente coinvolgente. Un viaggio avvincente in una terra fuori dal tempo.
FINANCIAL TIMES
INTERNAZIONALE - 20/06/2014
Jacek Hugo-Bader
Febbre bianca
Voto:5/5
Febbre bianca è il racconto del viaggio demoralizzante fatto
dal giornalista polacco Jacek Hugo-Bader attraverso la Siberia. In un tragitto di quattro mesi da Mosca a Vladivostok, punteggiato da guasti frequenti all'automobile e da un incidente in cui finisce fuori strada sulla neve, Hugo-Bader esplora un disperante paesaggio postcomunista.
L'ideologia è scomparsa e altre credenze hanno riempito il vuoto che ha lasciato. Incontra sciamani ed ex hippy. Viaggia fino a una remota comunità nella taiga siberiana dove migliaia di persone venerano un Cristo russo. Il vero nome di quest'uomo è Sergei Torop, ed è un ex miliziano che dice di avere centomila seguaci nel mondo e che ama dare comandamenti sul sesso, sui figli e su come bollire l'acqua per fare il tè. Questo è l'unico posto in Russia, scrive Hugo-Bader, dove ha incontrato persone felici. Mentre alcuni siberiani si sono rivolti al misticismo in cerca del senso della vita, altri si abbarbicano alla vecchia fede sovietica.
L'autore fa un salto da Michail Kalašnikov, 88 anni, l'inventore del famoso fucile, che non si pente affatto della sua invenzione letale. Si considera un patriota, ma la patria che ha in mente è l'Unione Sovietica.
Il titolo Febbre bianca si riferisce alla vodka, o più esattamente ai bizzarri effetti allucinogeni che sperimentano le tribù indigene della Siberia quando ne bevono troppa.
L'alcolismo sta spazzando via intere popolazioni, ma Hugo-Bader trova altre prove scoraggianti del fatto che la Russia si sta lentamente uccidendo. Oltre all'alcolismo ci sono gli incidenti automobilistici, l'abuso di droghe e l'hiv. E tuttavia Febbre bianca include anche moltissimi momenti gioiosi inaspettati. La forza del libro sta nel basarsi su storie umane che cadono al di fuori dei perimetri del giornalismo convenzionale. Magari ha poco da dire sulla cricca che comanda oggi al Cremlino - per quanto Vladimir Putin vi appaia brevemente come giovane luogotenente nel Kgb di Leningrado, mentre spazza via una comune hippy, ma Hugo-Bader è un compagno di viaggio cordiale e la sua opera offre un ritratto appassionante di una società che sta crollando.
(Luke Harding, The Guardian)
REPUBBLICA 29/06/2014
INCHIESTE E REPORTAGE
FEBBRE BIANCA
Il resoconto di un viaggio che in realtà è una odissea in un paese fuori dal tempo: la Siberia. Da Mosca a Vladivostok in pieno inverno, in solitudine, sua una jeep russa modificata incontrando pastori di renne, nomadi, ex hippy, sciamani, senzatetto...
Di Jacek Hugo-Bader, Febbre bianca, Keller
TOURING CLUB ITALIANO 15/07
Parole in viaggio. In macchina nel cuore della Siberia.
Intervista a Jacek Hugo-Bader di Tino Mantarro
http://www.touringclub.it/notizie-di-viaggio/parole-in-viaggio-in-macchina-nel-cuore-della-siberia
Leggendo un reportage di viaggio si cercano tante cose: avventura, passione, divertimento, empatia e verità. Non vuoi sapere vita, morte e miracoli di chi sta al potere, quelli si trovano sui libri di storia. Si cerca un racconto di prima mano di mondi lontani e diversi, zone periferiche che magari mai visiterai, ma che stuzzicano la fantasia e la voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, prima o poi non è detto che uno non decida di partire con un libro sotto braccio. Per questo abbiamo selezionato dieci reportage per dieci settimane. Dieci scoperte del mondo partendo dalle pagine di un libro letto a casa o, ancora meglio, in viaggio.
Quando decidi di attraversa la Siberia in inverno e per giunta in macchina devi essere pronto a tutto: assalti di banditi, agguati di poliziotti, animali pericolosi, incidenti mortali e guasti meccanici. Soprattutto questi ultimi possono essere fatali: rimanere di notte al freddo, in Siberia, d'inverno è l'anticamera della morte, se non sei preparato. Il giornalista polacco Jacek Hugo-Bader si era preparato per anni per affrontare la sua odissea via terra: un viaggio da Mosca a Vladivostok per scoprire il cuore ghiacciato della Russia e la sua gente. Perché quel che più attrae e incuriosisce del suo racconto, oltre alle peripezie stradali con la sua vecchia auto sovietica, sono le persone. Sciamani che si credono la reincarnazione di Cristo, ex hippy ubriaconi, generali ancora orgogliosamente sovietici e poi minoranze siberiane, popolazioni destinate a sparire che racchiudono nelle loro parole l'essenza delle Siberia. Un'essenza che il giornalista polacco, il cui reportage Febbre Bianca è stato tradotto da Keller editore (pag. 288, euro 16,50) prova a raccontare in questa lunga intervista.
Chi viaggia in Siberia se può usa il treno e mai la macchina: perché?
Per le dimensioni. La Siberia da ovest a est è più o meno come farsi cinque volte dalla punta dello stivale italiano alle Alpi. A questo aggiungi che le strade sono mal messe, che mancano posti in cui dormire o mangiare, e che la polizia russa è ben nota per la sua avidità. Un viaggio di più giorni in treno è come un lungo pic-nic in continuo movimento sulla strada. I treni russi sono molto comodi e gli stessi russi amano questo modo di viaggiare, li prendono come una parte della vacanza, un non far niente, riposarsi, dormire e bere wodka parlando con gli altri passeggeri. Soprattutto per uno straniero che parla il russo, come me, questo è particolarmente stimolante e curioso. In un viaggio tanto lungo come quello attraverso la Siberia si allacciano bei rapporti, le persone sono costrette a entrare in contatto tra loro, a conversare. Si può stare in silenzio un paio d'ore andando da Varsavia a Cracovia, o da Roma a Milano, ma non si può non parlare cinque giorni e cinque notti andando da Mosca a Vladivostok.
Dopo cinque giorni tutti parlano...
A quel punto persino i cuori si aprono, i passeggeri acquistano una rara sincerità, a lungo e in modo vero parlano di sé, questo fenomeno si è persino conquistato un nome, i russi lo chiamano «Sindrome paputčika», una parola che deriva da put (strada) e paputčik, l'uomo con cui si è in viaggio (in senso figurato e letterale), la persona con cui condividi opinioni simili, aspirazioni, mete. I treni russi a lunga percorrenza hanno tre classi: obščij, che è la classe più bassa; kupejnyj (scompartimento per quattro) e lux molto confortevoli (per due persone). In quanto a comodità io preferisco la seconda, ma soprattutto per la curiosità viaggio spesso con la classe più bassa, si tratta di un vagone per 82 passeggeri che non è diviso a scomparti; lì si procede bene, una vita comune, in inverno si brucia il carbone nel forno, si scalda l'acqua per fare il tè nel samovar e tutto questo avvicina le persone.
Quali sono i pericoli maggiori che si possono trovare sulle strade russe in inverno: il gelo, i banditi o i poliziotti?
Direi piuttosto la distanza. Manca del tutto l'assistenza stradale, i meccanici, e se si verifica un guasto si aggiungono il gelo, e la notte, e nessuno che si fermerà ad aiutare: la disgrazia è servita. Riguardo al banditismo sulle strade la situazione migliora di anno in anno. La Russia di Putin ha fatto in questo ambito enormi progressi. Questo è uno dei pochi lati positivi del potere autocratico. Nessun dittatore spartirà mai con nessuno il suo personale diritto all'uso della violenza e quindi il banditismo è assolutamente combattuto.
Facevano concorrenza alla polizia?
La polizia stradale è la professione più malvista in Russia, perché sono avidi e corrotti all'inverosimile. Spillano soldi ai conducenti al posto di multe per trasgressioni inventate o con, come se chiedessero un pedaggio per passare dalla strada. Ma questo non vale per gli stranieri, perché i russi sono molto ospitali, amano gli stranieri, se possono li aiutano. Persino la polizia, che i russi li spenna, li deruba senza pietà. In tutto il mio viaggio ho pagato solamente una multa/bustarella del valore di 1000 rubli, circa 25 euro, ma di questo ho scritto nel libro. Ho viaggiato su una macchina registrata in Russia, mi hanno fermato molte volte, ma una volta saputo che sono un giornalista polacco mi hanno sempre lasciato proseguire senza problemi, persino quando per davvero avevo commesso qualche reato, ad esempio quando non accendevo i fari al crepuscolo perché dovevo risparmiare batteria alla Lazik.
Quanto è distante questa Russia che hai attraversato dalla Mosca dei nuovi ricchi e dalla Sochi delle Olimpiadi? Sono lo stesso Paese?
Sono come due mondi diversi. La Russia è un meraviglioso, insolitamente ricco, e interessante buon paese, con persone sincere, per molti dei quali la patria è come la peggiore matrigna. Perché nonostante la straordinaria potenza e ricchezza della Russia, è un paese costruito ingiustamente. A ogni passo s'incontra una disuguaglianza sociale che non vedrete in Africa. Ci sono oligarchi a confronto dei quali i milionari americani sono poveri, e persone che fanno la fame. Nella stessa Mosca, con dieci milioni di abitanti si vendono più Mercedes classe S (il tipo più lussuoso) che in Germania, dove queste macchine vengono prodotte. Perché scrivo di questo? Perché nella capitale russa ci sono almeno cinquemila bambini senza una casa. Un mio amico tedesco non ha torto quando dice che è un paese marcio. E che cos'è, che in questa straordinaria nazione è capace di rovinare questo posto magnifico?
L'umanità di cui racconti, quella che hai incontrato lungo la strada è triste e dolente: hai trovato degli angoli di gioia nel tuo viaggio?
Ma certo che ho incontrato russi felici. A ogni angolo: è solamente necessario essere capaci di guardare a loro (e leggere di loro), perché con loro è esattamente l'opposto che con gli americani. Gli abitanti degli Stati Uniti sono infelici, tristi, depressi, ma sembrano e fanno finta di essere contenti. I russi, anche se sono felici e tutto fila liscio e sono sani e ricchi, hanno i visi cupi, gli piace lamentarsi e sono invidiosi. Ma non sono d'accordo se afferma che in Febbre bianca ho descritto solamente persone che non hanno avuto successo, persone segnate dalla sofferenza. Già gli hippy di Mosca, dai quali parto col mio racconto, sono persone che hanno scelto quella determinata vita, che l'hanno costruita e che in quello sono felici, hanno trovato la loro felicità, la gioia, la soddisfazione nella diversità, nel rifiuto della normalità, la rinuncia allo stile di vita sovietico. La loro felicità è una libera scelta. Vi hanno beneficiato e se la sono conquistata, perché nel periodo sovietico non l'avevano. Sono stati i primi russi a conquistare per sé la cosa più preziosa del mondo la libertà e l'amore, e io lo so bene, perché anch'io provengo da un paese e da un tempo in cui la libertà individuale doveva essere conquistata.
E gli hippy non sono gli unici, giusto?
Così è anche per i vissarionisti, i protagonisti del capitolo "Un lembo di cielo". Hanno un biografia sfregiata ma costruiscono di nuovo la loro vita e sono felici, soddisfatti, trovano la gioia e la forza nell'essere una comunità, nessuno li indottrina, non sono una qualche setta, non hanno subito un lavaggio del cervello, hanno compiuto una libera scelta e in qualunque momento possono andarsene. Sono loro le persone più felici che ho incontrato nell'ex Unione Sovietica.
Nel libro racconti di alcune delle cinquanta popolazioni native della Siberia che stanno scomparendo. Che destino vedi per loro?
Purtroppo temo che le popolazioni native della Siberia non possano aspettarsi niente di buono. Si scioglieranno nella massa russa in qualche decina d'anni. Continuano a diminuire, morire, estinguersi, bevono fino a morire, hanno un incremento naturale di nascite negativo e non sono capaci di mantenere un 'unità nazionale, etnica. Perdono la loro lingua, la cultura, la religione, quel senso di diversità che li caratterizza, ma lo Stato russo di questo non si preoccupa. Gli jakuti lottano eroicamente per preservare la loro identità e sono fiducioso che loro ce la faranno, perché sono il più numeroso dei popoli indigeni, sono mezzo milione; ma se si parla degli altri non ho grandi speranze. Questa consapevolezza non mi dà pace, perché nel nostro XXI esimo secolo, come dicono sul loro destino i popoli che vivono in Siberia, è in corso un morbido olocausto. E di loro ce ne sono già appena due milioni.
Il tuo è un viaggio in qualche modo replicabile?
Conosco persone che hanno fatto questo viaggio col mio libro in mano, ma si sono preparati bene, conoscevano la lingua, e questo è essenziale, perché i russi maneggiano male le lingue straniere, ma sono persone di cuore, ospitali, e aiutano volentieri se glielo si chiede. Tuttavia sono un po' diffidenti e per questo è importante riuscire a comunicare bene. Bisogna fare i conti con la scomodità, dormendo dalle persone incontrate per caso, mangiando qualsiasi cosa. Credo che sia meglio conoscere la realtà del posto, per sopravvivere nelle più profonde regioni russe in Siberia, quindi piuttosto consiglierei di approfittare di appositi servizi delle agenzie viaggi, che organizzano "spedizioni a richiesta" in qualsiasi posto il clienti indichi.
AVVENIRE 25/7/2014
SIBERIA
RELITTI D'URSS
"Un libro tanto intenso quanto vero che interviene a colmare la mancanza di una voce capace di narrare la realtà soprattutto dal punto di vista umano, come è stata quella di Kapuscinski".
La mancanza di una voce capace di "narrare" la realtà soprattutto dal punto di vista umano, com'è stata quella di Ryszard Kapuscinski, viene ora, in parte colmata da un altro giornalista polacco, Jacek Hugo-Bader, che ci racconta la realtà di una Russia, pur molto ricca, ma molto degradata. Lo fa attraverso il resoconto di un suo viaggio di quattro mesi, da Mosca a Vladivostok, attraversando la Siberia. Invece del treno, mezzo di trasporto senz'altro più comodo e sicuro, Hugo-Bader sceglie il più avventuroso percorso con una jeep, che spesso ha vari guasti e una volta finisce fuori strada per la neve. La necessità di questo viaggio-verità deriva da una serie di articoli che due giornalisti sovietici avevano pubblicato sulla Pravda, in cui spiegavano quella che avrebbe dovuto essere la Russia del XXi secolo. Idee che facevano nascere la necessità di capire che cosa è diventato oggi quell'immenso Paese. Tanto che nel libro spesso cita in senso sarcastico le testuali parole del 1957.
Con un piglio di scrittura sempre diretta, a volte anche ironica, Hugo-Bader ha la capacità di accompagnare con sé il lettore in questo suo viaggio per riviverlo insieme durante la lettura. Lungo il percorso incontra le persone e sono i ritratti che lo scrittore-giornalista riesce a dare, così intensi e così veri, a rendere questo libro tanto vivo quanto intenso. Accanto ai racconti degli incontri, ci sono anche le trascrizioni di alcune conversazioni, scelta anche strutturale del voler mettere in evidenza quanto la realtà spesso sofferente dell'uomo sia l'unica a poter interrogare la Storia. Così è come se gli esclusi, anche per propria scelta, dal sistema russo - ma anche del divario sociale che esiste nella Russia di oggi, con una ricchezza esagerata e una povertà impietosa - si potessero prendere la parola e raccontare. Si va dai rapper e dal punk rock da Guerra fredda agli allevatori di renne, dai senzatetto ai superstiti dei vecchi manicomi. Ci sono poi due incontri che segnano il libro, per consistenza morale ed espressività della scrittura. Uno è quello con una comunità di sieropositivi, quella che si rifà a un misticismo molto personale, dove l'autore ha incontrato "le persone più felici dell'ex-Unione Sovietica" perché la loro è una libera scelta, un modo per ricostruirsi una vita e sentire la felicità nell'essere comunità. Come gli hippy, i primi che hanno rinunciato allo stile di vita sovietico, i primi a conquistarsi di nuovo la libertà e l'amore.
C'è anche il passaggio che sta intorno, quello delle popolazioni native della Siberia che stanno subendo una lenta, ma già visibile e allarmante diminuzione, con la perdita di quella cultura strettamente propria e delle diversità che la caratterizzano. Con in più il peso dell'alcol che è una realtà preoccupante nella Russia di oggi. Ce lo racconta Hugo-Bader, ma ben ne sintetizza la realtà una delle donne incontrate, ritratti assai intenso come quello della sciamana: "Il nostro Paese è in preda a una spaventosa epidemica alcolica, una vera piaga, una peste. Con tutte le conseguenze del caso: la criminalità, i penitenziari". Ne emerge una realtà sociale allo sbando, che fa dire alle persone incontrate nel viaggio che la Russia sta morendo; anche la corruzione e lo strapotere, la censura e l'ingiustizia sono i fantasmi di questo dissolvimento di una grande nazione. Un esempio è quello della polizia stradale: "I peggiori sono i poliziotti sbronzi. Hanno un mucchio di quattrini, soprattutto quelli della statale, ma sono violenti anche da sobri".
(Fulvio Panzeri)
A SUA IMMAGINE, RAI UNO, 24/08
Al minuto 25:40 circa si parla di FEBBRE BIANCA del polacco Jacek Hugo-Bader, su consiglio di Eraldo Affinati.
http://www.rai.tv/dl/replaytv/replaytv.html?day=2014-08-24&ch=1&v=407161&vd=2014-08-24&vc=1#day=2014-08-24&ch=1&v=407161&vd=2014-08-24&vc=1
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: NOVEMBRE 2010
BROSSURA | PP. 240 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO ANGELA LORENZINI
Emma alleva maiali in un angolo sperduto della campagna tedesca. È libera, forte e quello a una vecchia scrofa, che stringe quando riflette, è l'abbraccio più vigoroso che abbia mai dato. Gli animali sono la sua cura all'assenza di un amore, ai debiti che stanno per farle perdere la fattoria.
Una notte, però, il silenzio viene rotto dal fragore di un incidente stradale e nella sua vita arriva Max, giovane impiegato in fuga con il denaro rubato all'azienda per cui lavora e con il sogno di trascorrere gli ultimi mesi di vita in Messico.
Come d'incanto Emma si ritrova tra le braccia tutto ciò che poteva desiderare: una borsa piena di soldi e un uomo da amare. Ma la felicità c'entra qualcosa con i desideri?
Delicato, surreale, commovente, a tratti triste e a tratti rabbiosamente comico questo romanzo ci consegna una indimenticabile storia d'amore e di incontro tra destini.
"Emma andò in camera da letto e annusò la trapunta. C'era ancora impigliato il suo odore. Resina e cannella. E perché adesso se ne voleva andare, quel tipo dai begli occhi scuri?
Per una volta una donna salva un uomo invece che viceversa, lo consola come una madre, e dopo lui se ne vergogna? Per questo era così taciturno? E poi, dove voleva andare senza soldi?"
La felicità di Emma è una gioia, uno di quei romanzi che si leggono tutto d'un fiato e rimangono per sempre dentro di noi. ELIAS BARCELO
Claudia Schreiber vive e lavora a Colonia. È scrittrice, sceneggiatrice e ha collaborato con la radio e la televisione tedesca (ZDF). La felicità di Emma, primo romanzo tradotto in italiano, ha ottenuto in Germania uno straordinario successo di critica e pubblico ed è stato tradotto in numerose lingue.
Dal libro è stato tratto anche un film, diretto dal regista Sven Taddicken.
PREZZO: €14,50
DATA USCITA: NOVEMBRE 2015
BROSSURA | PP. 176 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL TEDESCO FRANCO FILICE
In tutte le famiglie ci sono dei segreti, storie che vengono taciute, fatti nascosti dietro alle porte, sotto i tappeti o in una casa di pescatori a millequattrocento chilometri di distanza da dove si è cresciuti.
All’inizio di una torrida estate Juno riceve una lettera anonima grazie alla quale scopre che il padre le ha lasciato in eredità una casa in Bretagna. Chiede spiegazioni alla madre, ma in cambio riceve solo silenzi e un mazzo di chiavi. Allora prende una decisione: carica poche cose in macchina e parte. La casa è già abitata da Julie, una ragazza di Marsiglia che lavora al Bar du Matin e che accoglie con circospezione e semplicità la nuova arrivata. Prende vita così un viaggio alla scoperta di un passato che riemerge un po’ alla volta, doloroso, ma finalmente libero di essere guardato in faccia, di essere capito, di essere curato. Con un linguaggio scarno, attento e già maturo Lisa-Maria Seydlitz ci regala una bella riflessione sulla famiglia, sulla perdita, sulla solitudine, ma soprattutto sulla vita che continua e ci riserva sempre nuove sorprese.
«Mio padre dovrebbe rientrare oggi. È da un’ora che lo aspettiamo in giardino tra girasoli e digitali. Mia madre cammina nervosamente sull’erba calpestando con i sandali le ciliegie cadute che le lasciano sulle caviglie delle striature irregolari, rosse. Sale di continuo le scale come per entrare in casa, si ferma sul vano della porta e tende l’orecchio nella speranza che squilli il telefono. I cubetti di ghiaccio nella caraffa di vetro sul tavolo del giardino si sono ormai sciolti. Mia madre mi ha pettinata: ho i capelli tirati all’indietro e una frangetta che mi si appiccica sulla fronte. Mia madre ha comprato dei vestiti nuovi, rosso a pois gialli il mio, a pois bianchi il suo. Ieri sera, dopo il lavoro, è andata in città per cercare l’abbigliamento giusto per oggi. Si passa una mano sul vestito come per spolverarlo e alza lo sguardo verso di me».
Una piccola meraviglia. NDR KULTUR
Incantevole! JOY
Un esordio che promette molto e che mantiene ciò che promette. DEUTSCHLANDRADIO KULTUR
Una impressionante opera d’esordio. DRESDNER NEUESTE NACHRICHTEN
Uno dei miei libri preferiti. HANNS-JOSEF ORTHEIL
Solare e malinconico. TAZ
Va dritto al cuore. NZZ
INTERNAZIONALE, 8/1/2016
Lisa-Maria Seydlitz, Figlie dell’estate
Figlie dell’estate è il primo romanzo della tedesca Lisa-Maria Seydlitz, nata nel 1985, e a prima vista sembra appartenere al prolifico filone dei romanzi familiari. Ancora una volta al centro della storia ci sono i “segreti” di una famiglia; ancora una volta la narrazione procede attraverso flashback; e ancora una volta il racconto è scritto al presente, cosa che rende così statici tanti romanzi contemporanei. E tuttavia Lisa-Maria Seydlitz si muove con la sicurezza di una sonnambula su tutti questi abissi.
Figlie dell’estate rievoca un’estate sulla costa della Bretagna, raccontata dal punto di vista di una giovane donna, Juno, che dopo aver ricevuto una strana lettera parte per la Francia a riscuotere un’eredità lasciatale dal padre, una casa di pescatori. Il padre si è suicidato anni prima e il viaggio in Bretagna offre a Juno l’occasione per ripercorrere nella memoria le tappe della propria infanzia, che è tutta circondata da enigmi legati a lui. Come uomo d’affari il padre, prima di avere disturbi mentali, intraprendeva viaggi non meglio specificati verso la Francia. Ma l’oscurità comincia a diradarsi quando Juno scopre che nella casa che ha ereditato vive un’altra ragazza, Julie. Camille, proprietaria del Bar du Matin, e Jan, un architetto vicino di casa, sono insieme a Julie pezzi di un unico puzzle, che si compone passo dopo passo nel corso del romanzo. Una delle rivelazioni è che Julie è la sorella di Juno. Figlie dell’estate salta avanti e indietro tra diversi piani temporali. “I ricordi si fondono con i sogni, si fondono con i desideri, si fondono con il presente e diventano una cosa sola”, riflette Juno, “come pellicole colorate che si sovrappongono e si combinano per dar vita a una nuova immagine”. In questa metafora c’è tutta la poetica del romanzo, capace di raccontare gli stati d’animo fluttuanti e indefiniti che accompagnano l’infanzia e le scoperte della giovinezza.
Rainer Moritz, Neue Zürcher Zeitung
IL MANIFESTO, 24/12/2015
L'IMPOSSIBILE UTOPIA DELLA FELICITÀ FAMILIARE
Le storie di figli, fratelli, sorelle riconciliati mi hanno sempre acchiappato (forse per proiezione, magari per desiderio di emulazione).
Tutte le storie poi in fondo parlano di questo: il passato dei padri ricade sul presente dei figli, vendette fratricide, tradimenti, eredità spartite a duello. Ognuno di noi è nato da un ventre, ognuno di noi vive accanto a esseri umani vicini per sangue ma non sempre per cervello o cuore, ognuno di noi morirà solo, senza dimenticare errori, rivalità, bugie. Parricidi, infanticidi, matricidi, incesto, le declinazioni dell'amore deviato tra consanguinei.
Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre. Medea assassina dei suoi stessi figli. Urano, per toglierseli di torno, infilava di nuovo i neonati nel ventre da cui erano venuti.
Crono divorò tutti i suoi figli, subito dopo la nascita. Da qui parte tutto: da Star Wars a Pirandello fino alla tv spazzatura.
Da allora ci siamo evoluti ma solo un po', sotto sotto sempre là stiamo: le storie, per funzionare, hanno bisogno di un uomo con tendenze incestuose, di una donna incatenata in un amore edipico fino alla fine dei suoi giorni, di un padre che non riconosce i propri discendenti (e fugge in un paradiso fiscale).
Da una ventina d'anni siamo tutti un po' fratelli di tutti: genitori si lasciano e figliano di nuovo con nuovi partner, apparteniamo tutti a famiglie allargatissime: ritrovarsi a chiamare sorella un'emerita sconosciuta solo perché i nostri genitori scopano, passano i weekend insieme fuori città portando noi figlie - «son coetanee, chissà che non diventino amiche» - ma non si sa quanto la relazione reggerà (forse fino a quando la figlia della «matrigna» una notte si confonderà e andrà a letto col fidanzato della «sorellastra»)...
Nel romanzo Figlie dell'estate (Keller editore) della tedesca Lisa-Maria Seydlitz (classe 1985) tutta questo furore passionale non esiste: siamo nel civile nord Europa, una famiglia con una sola bambina, im padre che si assenta, a volte per lavoro, a volte per soggiorni in clinica non ben identificati.
Il libro interseca due piani temporali: un presente in cui Juno, la giovane ormai divenuta orfana di padre, ricevuta una lettera anonima grazie alla quale scopre di avere ereditato una casa in Bretagna, parte immediatamente, in barba ai silenzi inoppugnabili della madre; un passato di vita familiare di non detti, sorrisi sghembi, amore filiale verso una figura paterna complicata. Durante il soggiorno francese la protagonista incontrerà Julie, bella ragazza marsigliese, che occupa la casa di Juno senza darci peso. Il loro è im incontro inatteso, foriero di scoperte. La leggerezza di ritrovarsi vicine tra estranee (che estranee non sono affatto), la possibilità di migliorarsi, fare i conti con un passato non vendicativo né punitivo, quanto piuttosto occasione e riparo, cura e recupero, superamento della solitudine e potenziale condivisione. Senza ghingheri o esclamazioni si scopriranno sorelle consanguinee, di diverse madri ma dello stesso seme: somiglianze a distanza, curiosità da far venire a galla nuotando insieme dentro il mare caldo dell'estate. (Pur sembrandomi, nella mia trama personale, un'utopia impossibile, ho amato molto questo lieve libro a lieto fine).
Fabiana Sargentini
PREZZO: €13,00
DATA USCITA: NOVEMBRE 2012
BROSSURA | PP. 144 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO FABRIZIO CAMBI
LIBERO, 27 novembre 2012
HERTA MÜLLER
di Vito Punzi
Alla scrittrice rumeno-tedesca Herta Müller,Nobel per la letteratura nel 2009, il coraggiodi chiamare le cose con il loro nome, soprattutto quando in gioco c'è la libertà d'espressione, non è maimancato e ora, a pochi giorni dalla consegna dello stesso riconoscimento al cinese Mo Yan (il 10 dicembre), dimostra di non voler accettare compromessi, usando il quotidiano svedese Dagens Nyheterper definireuna «catastrofe» la scelta di premiare uno scrittore che ha contribuito di recente alla stesura di un volume commemorativo contenente le regole censorie elaborate da Mao Zedong nel 1942.
Del resto, appartenente alla minoranza germanofona rumena, la Müller ha vissuto la propria infanzia sotto il regime comunista di Ceausescu come «scuola di paura» e quella terribile esperienza è diventata il contenuto di tutti i suoi romanzi e scritti, compresa l'ultima raccolta di saggi e discorsi, appena edita inItalia, in cui ricompone il rapporto tra la propria biografia e le proprie opere letterarie.
Dopo averne pubblicato una parte nel 2011 nel volume Il re s'inchina e uccide, è sempre l'editore Keller a proporre i restanti scritti contenuti nel volume Der König verneigt sich und tötet (Hanser 2010) ne Il fiore rosso e il bastone (trad. di Fabrizio Cambi, pp. 138,euro 13).
In luogo dell'infanzia la Müller trova solo i ricordi di un padre che si ubriaca per dimenticare il suo passato di SS e di una madre che non riesce a superare il pensiero della deportazione in un lager sovietico edella sua impotenza: «Lei infatti piangeva perché il marito era un ubriacone che agitava il coltello quando gli chiedeva contodel suo comportamento. Io invecepiangevo perchévolevoavere una madre che qualche volta piangesse per me, per una figlia che non sa perché appartiene a quei due genitori». Così il villaggio d'origine resta un oggetto di disgusto sotto il cui cielo non c'è nulla da attendersi se non malattia, punizioni per i peccati quotidiani e morte.
La Müller non vuole essere accolta come fenomeno interculturale e piuttosto insiste su un'esperienza che è stata così diversa da quella di un qualsiasi altro scrittore o semplice cittadino tedesco che il comunicarla appare quasi impossibile. E quando ne fa memoria e tenta di raccontarla non esita a riconoscere il proprio limite: «Ancor oggi mi vergogno di aver capito allora così poco le dimensioni reali delle cose. Mi stupisce quanto poco abbia compreso in ogni momento del presente il bagaglio consegnatomi dal passato per il futuro».
Ciò che è esistenziale e ancor più ciò che minaccia l'esistenza rappresentano un bene esile nella letteratura contemporanea. Per la Müller, al contrario, sembra non esistere altro. Il suo mondo è privo d'ironia, di letizia; vive in una condizione di costante emergenza, la quale può essere gridata aderendo alla lingua che sola può raccontare l'esistenziale: la lingua del villaggio. Grazie a essa, così le sembrava da bambina, le persone che le stavano attorno «riferivano le parole direttamente alle cose che intendevano indicare». Espresso con ancor più chiarezza, «le cose si chiamavano così com'erano ed erano proprio così come si chiamavano.
Un accordo stipulato in eterno». In quest'assenza di varchi tra la parola e l'oggetto è nascosto il valore della scrittura della Müller (che troppo facilmente viene accusata di rielaborare sempre gli stessi temi), perché in virtù di quest'aderenza i suoi testi finiscono col librarsi oltre le stesse cosenominate, finoache questestesse si trasformano in preziose metafore.
Ma i ricordi della vita nel villaggio della sua infanzia sono legati anche al silenzio dei suoi abitanti, dei contadini, e ancora oggi la scrittrice ne riconosce il valore, cheè perfinosuperiore a quello delle parole, perché «il silenzionon è una pausa che si inserisce quando si parla, ma è un fatto in sé». Col silenzionasceva «un sovraccaricarsi delle cose che si trascinavano e che noi ci portavamo dietro».
«Le parole», continua, «non hanno un peso simile perché non si fermano. Subito dopo aver finito di parlare, appenadette, le parole sonogià mute. E si lasciano dire singolarmente una dopo l'altra. A ogni frase tocca il suo turnosolo quando è finita quella prima. Invece quando si tace viene fuori tutto insieme, vi resta attaccato tutto quelloche da lungotempo non è stato detto».
Accusata, in particolare dai recensori tedeschi, di scrivere "solo" sul suo passato rumeno, laMüller si difende ricordando che i suoi sono criteri di «appartenenza», non «spaziali», comesono quelli cui siobbedisce in Germania: «Se io scrivo qualcosa dellaRomania che risale a dieci anni fa, significa che scrivo (ancora) sul passato. Se un autore di qui scrive sul dopoguerra, sul miracolo economico o sul Sessantotto, lo si legge come presente». E probabilmente è proprio questa sua «appartenenza» al passato a donarle quella libertà di criticare il Nobel al politicamente compromesso Mo Yan che troppi critici e scrittori tedeschi dimostrano di non avere.
LA REPUBBLICA - D -15 dicembre 2012
IL DONO DI HERTA
Nella nuova raccolta della Müller c'è la chiave della sua intera opera narrativa di Tiziano Gianotti
Una raccolta di scritti sospesi tra memoria e immaginazione, vicenda personale e Storia, che affianca il precedente Il re s'inchina e uccide e va a formare una sorta di glossario dei motivi e figure del mondo di finzione di Herta Müller.
Per chi ha letto L'altalena del respiro, Bassure e Il paese delle prugne verdi la lettura di Il fiore rosso e il bastone è una conferma, per un nuovo lettore è il miglior viatico possibile all'opera di unodelle maggiori scrittrici europee d'oggi.
Dove viene subito facile isolare i due paradigmi della vicenda personale, il silenzio e la paura: «Se sto in silenzio, si assopisce in me la paura, così mi sembra. Se parlo, si risveglia».
Il silenzio che è un modo di comunicare, quando non si parla di continuo di se stessi e così si ascolta con gli occhi, si impara a intendere i movimenti di labbra e narici, mento e dita delle mani, com'era nel paese natale della Müller, nel Banato, dove i contadini svevi, tedeschi in terra rumena, non fanno grande uso delle parole. È così che si sviluppa quella capacità di osservazione estrema che nella scrittrice si traduce nella precisione lenticolare di un pittore fiammingo, quella capacità di mettere a fuoco tutti i dettagli su una profondità di campo che è quella infinita dell'immaginazione.
La paura è invece quella del perseguitato politico dal regime, in questo caso quello del dittatore Ceausescu, che la Müller ha dovuto patire per molti anni: è il brodo di cultura da cui nascono le figure nere, gotiche dei suoi romanzi, frutto di una vertiginosa vena metaforica.
Ecco allora che lo scrittore ritrova la figura della Morte, così presente nel quotidiano contadino svevo e in quello cittadino del perseguitato, nelle «pesche di vecchie », le pesche amare grosse come noci che le vecchie montanare scendevano a vendere al mercato, oppure seduta lungo le strade e «chiara come la cera», quando dai tigli in fiore cade quella polvere gialla che al paese natale chiamavano «lo zucchero dei cadaveri».
D'altro canto, chi se non uno scrittore gotico tedesco potrebbe raccontare «della collezione dei modi di morire in una valle nel pieno della fioritura»? Quella che lei voleva raccontare all'amica di città, sensuale e scoperta, che finirà col tradirla inchinandosi al re di stato, il dittatore, che vuole ucciderla: dovrà lasciarla pur amandola e sapendo che deve morire di cancro, una perdita dolorosa «come il taglio di un bosco », e nessuno ha mai detto meglio il vuoto della perdita di una persona amata, il panico di fronte al nulla che rimane là dove prima erano il rigoglio e il silenzio, l'ombra e la luce, un mondo.
■ Herta Müller Il fiore rosso e il bastone, Keller, 13 euro
PREZZO: €13,50
DATA USCITA: APRILE 2010
BROSSURA | PP. 144 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL POLACCO MARZENA BOREJCZUK
PREZZO: €10,00
DATA USCITA: NOVEMBRE 2014
BROSSURA | PP. 108| COLLANA RAZIONE K
TRADUZIONE DAL TEDESCO
TRADUZIONE DAL TEDESCO DI ANNA RUCHAT E ALLIEVI FONDAZIONE MILANO LINGUE CRISTINA GALIMBERTI, ANNA CLAUDIA IACOPINI, NOEMI LATTARULO, FEDERICA TORTIELLO
Nella zona vietata, sul lato est del confine che per quarant’anni ha separato i tedeschi dai tedeschi, c’erano duecentonovantasette villaggi.
La zona chiusa tra i due blocchi era larga cinque chilometri, in un certo senso era il braccio di isolamento della DDR, una nazione ermeticamente chiusa…
Solo chi risultava politicamente affidabile poteva rimanere in quella zona. Entrare o uscire da uno dei villaggi era possibile unicamente grazie a un lasciapassare...
Tra la zona vietata e la Germania Ovest, c’era la striscia della morte con torrette di guardia e campi minati, recinzioni di metallo e postazioni di sparo automatico. Lì ci abitavano solo i cani…
GALIZIA
Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa
PREZZO: €18,00
DATA USCITA: MARZO 2017
BROSSURA | PP. 288 | 32 pagine con immagini a colori |COLLANA RAZIONE K
TRADUZIONE DAL TEDESCO FABIO CREMONESI
Chiunque abbia amato la letteratura mitteleuropea deve almeno sfogliare questo libro.
Caro Martin, hai scritto un libro bellissimo, che è insieme il tappeto magico di Faust, un grande viaggio nella Storia e nella vita. CLAUDIO MAGRIS
Libro di viaggio, trattato, omaggio poetico e filosofico, reportage, saggio e cronaca, resoconto di un mondo scomparso, gioco letterario, romanzo documentario, portolano per una terra senza mari, non c’è una sola definizione che possa calzare pienamente per questo libro straordinario che tutte le riunisce e tutte le rende inadeguate e insufficienti. Con Galizia di Martin Pollack ci si immerge senza mediazioni in un mondo intero: quello dell’Europa di mezzo, quello della carne e la terra che la componeva, quello dell’immaginario che ne è scaturito.
In queste pagine tutto si moltiplica quasi all’infinito assumendo però una chiara identità. Popoli, lingue e minoranze, città che hanno svariati nomi e vite a seconda dell’etnia e della lingua che le nomina, spazi ampi e smisurati, senso del confine e del confino pari a quello delle grandi terre dell’esilio… In questo cuore del nostro continente, ormai dimenticato persino nel nome, sta gran parte del Novecento e di quello che oggi siamo.
Questo libro è un viaggio immaginario attraverso una regione scomparsa, un tentativo di descrivere un mondo prima della sua distruzione. Le mie guide sono state quegli autori ebrei, tedeschi, polacchi e ucraini [solo per citarne due tra tanti Joseph Roth, Bruno Schulz, N.d.R.] che hanno fatto della Galizia e della Bucovina un luogo letterario indimenticabile, in cui, al di là di tutti gli eccidi e i conflitti, si era giunti a una feconda interazione tra popoli e culture.
MARTIN POLLACK
Un libro che ha una precisione da orario ferroviario austroungarico e il respiro vagabondo di grandi libri quali il Viaggio in Galizia o Ebrei erranti di Joseph Roth.
CLAUDIO MAGRIS
Martin Pollack, nato nel 1944 a Bad Hall, ha studiato slavistica e storia dell’Europa orientale. È traduttore dal polacco (vari i reportage di Kapuściński che ha fatto conoscere nel mondo tedesco), giornalista e scrittore. È stato corrispondente dall’estero per la rivista «Spiegel» a Vienna e Varsavia tra il 1987 e il 1998.
Il suo lavoro è stato premiato tra gli altri con l’Ehrenpreis des österreichischen Buchhandels für Toleranz in Denken und Handeln (2007) e con il Leipziger Buchpreis zur Europäischen Verständigung (2001). Vive a Vienna e Stegersbach, nel Burgenland meridionale. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il morto nel bunker (Bollati Boringhieri, 2007), Warum wurden die Stanisławs erschossen? (2008), Kaiser von Amerika. Die große Flucht aus Galizien (2010), Paesaggi contaminati (Keller, 2016).
MAPPA INDICATIVA DI ALCUNI LUOGHI CITATI NEL VOLUME
VIAGGIO IMMAGINARIO NELLA GALIZIA CHE NON C’È
Letteratura | Uno straordinario reportage dello scrittore Martin Pollack. Dalla regione cancellata dal ’900 che ha dato i natali a Joseph Roth e Paul Celan, Helene Deutsch e Bruno Schulz... Culla dell’Illuminismo ebraico e guazzabuglio di culture
PAGINA99 | 11 MARZO 2017
Enrico Arosio Robert Musil, per il suo Uomo senza qualità, aveva creato la Kakania. Gregor von Rezzori s’era inventato, anni dopo, la Maghrebinia. Quanto a Joseph Roth, aveva immaginato un Hotel Savoy di 864 stanze, città-Stato ai margini di quell’Est metafisico che comincia dopo Vienna e finisce in Siberia. Erano tutti luoghi inventati. Finzioni letterarie. Metafore della Mitteleuropa perduta.
Poi c’era la Galizia, che esisteva davvero. Che cos’era: un regno, un ducato, una regione, un territorio conteso? Di tutto un po’. A lungo fu sotto la Corona d’Asburgo, e dunque Austria. Dal 1918 se la riprese la Polonia, e la vicina Bucovina andò alla Romania. Dopo il 1945 una parte fu inglobata nell’Urss, è oggi si è sciolta tra Polonia e Ucraina. Sono rimasti i Carpazi, ma la Galizia non esiste più, è diventata un luogo ipotetico.
Martin Pollack, scrittore austriaco, le ha dedicato un libro straordinario dal titolo secco: Galizia (Keller, traduzione di Fabio Cremonesi, 288 pp., 18 euro). Pagina99 lo ha letto in anteprima. L’autore lo definisce «un viaggio immaginario attraverso una regione scomparsa». Dove i nomi stessi delle città sono cangianti come le forme di sovranità. Leopoli, la principale, sarebbe Lemberg che sarebbe Lwów che sarebbe L’viv. In Galizia nessun idioma comandava appieno: coabitavano il polacco, il tedesco, lo yiddish, il ruteno, e si parlava anche il romeno, l’ungherese, il russo. «Una Babele variegata e sconosciuta », riassume Claudio Magris in una importante postfazione centrata su questa «patria dei senza patria».
Leopoli era considerata la porta sul mondo.
Un mischmasch, un guazzabuglio non solo in senso etnico. Intorno al 1900, sotto l’Impero di Francesco Giuseppe, aveva 160 mila abitanti, polacchi, ebrei, ruteni (gli odierni ucraini), e nei dintorni minoranze tedesche. I polacchi erano in posizione dominante, e la burocrazia polacca, in particolare, sbarrava la strada alle carriere altrui nel pubblico impiego.
La città aveva qualche pretesa, piena com’era di gente ambiziosa. La stazione principale, scrive Pollack, «riempiva di orgoglio ogni abitante» con le sue alte volte vetrate e l’arrivo dei treni da Vienna, Berlino, Parigi. A Leopoli si riuniva il Parlamento galiziano, risiedevano il governatore, tre arcivescovi (cattolico romano, armeno e di rito greco), un rabbino capo. Si erano insediati diversi consolati esteri. L’hotel Bristol e altri alberghi eleganti tenevano a un certo tono. Leopoli era sede universitaria. Ed era un centro dell’I l l uminismo ebraico.
Se il ruteno rimaneva contadino, il proletario ebreo era inquieto, mirava a diventare borghese e suscitava invidie. Gli antisemiti non erano pochi, specie tra i polacchi cattolici.
Joseph Roth definiva l’antisemitismo nelle regioni orientali della monarchia «il socialismo degli imbecilli». Tanti giovani ebrei sognavano un’occasione per andarsene. Non solo dalle Judengassen, i vicoli fangosi con le buie casine di legno riscaldate da stufe precarie dove di frequente scoppiavano incendi; ma verso l’agognato Occidente, verso Vienna, Berlino, New York, il Brasile. Veniva da Przemysl, città fortificata sul fiume San con guarnigione di truppe austro-ungariche, la ragazza Helene Rosenbach: poté studiare a Vienna, divenne assistente di Sigmund Freud, sposò un noto medico, e con il nome di Helene Deutsch si affermò come psicoanalista negli Stati Uniti.
Pollack s’immagina di viaggiare sulle ferrovie imperial-regie fino alla Bucovina. A ogni tappa ci fa conoscere personaggi nuovi, estrae aneddoti vivaci, a volte leggende. Come la diceria, non priva di grazia poetica, che in certi paesi «gli abitanti di notte legassero il municipio al tiglio del paese per proteggerlo dai ladri». Con calda partecipazione umana fa rivivere frammenti di un mondo che finì annientato prima nei crematori della Shoah nazista, poi nelle deportazioni staliniane.
In Galizia a inizio Novecento gli ebrei erano una marea, oltre 800 mila, e la metà di loro erano negozianti, attivi nei commerci più vari. Chi fece studiare i figli, chi si assimilò, i sionisti emigrarono in Palestina, i socialisti a Berlino, gli avventurosi nelle Americhe; ma tra quelli che rimasero, tanti Kaftanjuden, gli ebrei col caffettano di Roth, salirono in cielo per la via del camino.
La miseria era ben visibile, le condizioni igieniche spesso terribili, l’ignoranza diffusa, ma una certa enfasi in quelle contrade era la norma. Leopoli era detta «piccola Vienna», i dintorni di Terebovlja la «Svizzera di Podolia», il villaggio di Busk la «Venezia della Galizia». La regione di Drohobic, addirittura, la «nuova Pennsylvania». Un motivo c’era. Drohobic crebbe, nell’Ottocento, sullo sfruttamento dei campi petroliferi. Dapprima minime imprese locali, poi compagnie internazionali, con ingegneri tedeschi e americani.
Gli speculatori, in quella febbre contagiosa, ci sguazzavano. Sorsero ville esagerate con scalinate in marmo e fontane a zampillo. Gli industriosi ebrei che all’inizio facevano tutto, sia i finanziatori sia i manovali e i sorveglianti, furono negli anni contrastati dalle banche austriache, che si presero operai cristiani. Discriminazioni incrociate.
Eppure, fino agli anni Trenta, la Galizia fu un esperimento di convivenza etnica e culturale, non solo uno spazio economico: il che ci fa riflettere sulle pulsioni antieuropee di oggi.
Colpisce come un territorio così piccolo abbia prodotto tanti ingegni. Da Drohobic proveniva, figlio di un mercante di tessuti ebreo allontanatosi dall’ortodossia, Bruno Schulz, l’autore di Le botteghe color cannella, che paragonava la corsa all’oro nero a «un selvaggio Klondike». Schulz morì a 50 anni, nel 1942, assassinato dalle SS dopo un rastrellamento.
In una modesta casa di Brody (donde origina il cognome dell’attore americano Adrien Brody) crebbe Joseph Roth, che poi studiò all’imperialregio liceo di lingua tedesca Kronprinz Rudolf, e dedicò alla Galizia e all’aspro mondo dello shtetl pagine fondamentali della letteratura centroeuropea, da Ebrei erranti alla Cripta dei Cappuccini.
A Czernovitz, dove borghesia e intellettuali si incrociavano al Café Habsburg e al Café de l’Europe, era nato il poeta Paul Celan, che poi morì suicida a Parigi nel 1970. Di Czernovitz era anche Gregor von Rezzori, l’apolide aristocratico vissuto a lungo in Toscana, di cui Pollack però non parla. Da Ivano- Frankivs’k arrivò a Berlino l’ex fornaio Alexander Granach, che fece una brillante carriera da attore nei teatri di Max Reinhardt.
Da Tarnów (dove «il Municipio è circondato da un mare di sporcizia, da cui sorge come un’isola») veniva lo scrittore di lingua tedesca Karl Emil Franzos, che per definire Galizia e Bucovina coniò il termine Halb-Asien, Mezza Asia; lo pensavano in molti, ma lui fu il primo a metterlo per iscritto.
C’è un particolare importante che non va dimenticato: gli ebrei che volevano gettarsi alle spalle ortodossia, povertà, superstizione avevano come traguardo la lingua e la cultura tedesca. Non è un caso che siano in tedesco, e non in polacco, le più importanti testimonianze letterarie di quel mondo.
Per tornare a Pollack, l’autore si muove nel cuore meticcio della Mezza Asia con piglio da antropologo. Accurato, mai pedante, ci regala anche scoperte divertenti, come le pagine sulla minoranza degli huzuli, montanari di cultura patriarcale, renitenti alla leva, dediti al brigantaggio. Le ragazze più belle erano dette «le parigine dei Carpazi».Ma un motto maschile era: «Non picchiare una donna è come non affilare una falce». Angeli e demoni di un angolo d’Europa svanito nel nulla, ma che riecheggia nei nostri cuori e ravviva le nostre ansie.
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1989.
Una famiglia è massacrata nella stanza di un albergo di Atlanta.
Smokey Nelson, l’assassino, viene condannato alla pena capitale. Passa vent’anni nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione della sentenza.
Molte cose sono accadute dopo la sua carcerazione: guerre, altri crimini, la devastazione provocata dall’uragano Katrina e, a parte un nome su un documento dell’amministrazione penitenziaria, Smokey Nelson non significa più nulla per nessuno.
Eppure ci sono persone che non hanno dimenticato. Quattro personaggi – attorno ai quali Catherine Mavrikakis costruisce un romanzo polifonico con un incalzante e perfetto gioco a incastro – che non solo non hanno dimenticato ma hanno fatto del nome di Nelson una vera e propria ossessione…
Catherine Mavrikakis ci regala un romanzo forte e potente e si rivela una delle grandi voci della letteratura americana contemporanea.
Catherine Mavrikakis è nata a Chicago nel 1961 da padre greco e madre francese.
Insegna Letteratura all’Università di Montréal. Dopo il suo primo saggio, La Mauvaise Langue, ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui Le Ciel de Bay City, Les Derniers Jours de Smokey Nelson (tradotto ora per Keller editore, 2016) e il suo ultimo, La Ballade d’Ali Baba.
L’autrice sa come raccontare splendidamente gli uomini e le donne in questa storia piena di furia e di emozione, ne evidenzia le pulsioni, i sentimenti di vergogna, la rabbia per l’ingiustizia, il desiderio di porre fine a tutto. LIRE
Costruito intorno all’esecuzione di un assassino, un affascinante romanzo corale della canadese Catherine Mavrikakis. Parodia degli Stati Uniti allo sbando, Gli ultimi giorni di Smokey Nelson fanno sentire la cacofonia di un mondo, fino a ieri esaltato come geniale melting pot, e oggi attaccato per la ghettizzazione delle sue comunità. Il romanzo di Catherine Mavrikakis descrive in modo meraviglioso questa deriva dei minicontinenti. Ancor meglio: ne fa sentire la musica, mischiando il furore di Jimi Hendrix alle volute sapienti del jazz, i duri canti degli evangelici alle ridicole e gioviali melodie di una pubblicità della Coca-Cola. LE MONDE DES LIVRES
Catherine Mavrikakus firma uno dei romanzi più forti e coinvolgente della stagione
Alexis Liebaert, Marianne
Se Catherine Mavrikakis è franco-greca per nascita, la sua penna è quella di un'americana. In questo romanzo si ha l'impressione di sentire la falcata dei migliori traduttori della letteratura d'oltreoceano eppure non si tratta di questo. Nata a Chicago, questa scrittrice scrive in francese – in una lingua a tratti gutturale, trattenuta, esaltata, fattuale. Sono questi gli aggettivi che ben si applicano ai quattro personaggi di origini diverse che in Gli ultimi giorni di Smokey Nelson fanno sentire la loro voce su uno stesso evento, l'assassinio di una coppia con due bambini, avvenuto in un motel nella periferia di Atlanta anni prima. Punto comune dei quattro personaggi, quella verginità di fronte alla morte che dona al libro una luce unica.
Marine Landrot, Télérama
Il condannato a morte di Victor Hugo, anonimo e arrestato per un crimine sconosciuto, espiava la sua colpa nella solitudine di un monologo interiore. A dispetto della risonanza hugoliana del titolo, l'ultimo romanzo di Catherine Mavrikakis evita qualsiasi anatomia dei pensieri del condannato a morte Smokey Nelson, assassino di una famiglia in un motel della periferia di Atlanta. E allo stesso modo lui stesso rifiuta, al momento di morire, di fare ultime dichiarazioni: il criminale rimane rinchiuso in una gabbia di silenzio per tutta la narrazione. L'autrice americana, di origine francese, mescola le sue influenze trasformando il soliloquio romantico di Hugo in una corale faulkneriana. Aprendo le porte del penitenziario solo nell'ultimo capitolo, allarga così lo spazio chiuso della cella finale di un condannato alla pena capitale negli Stati Uniti. Gli ultimi giorni di Smokey Nelson diventa quindi un pretesto per esplorare un momento di morte imminente, la condizione critica di un'America ipocondriaca e moribonda, flirtando continuamente, sia dentro che fuori, con la morte.
Juliette Poizat, Le Magazine littéraire
Quattro voci americane si susseguono nel nuovo romanzo di Catherine Mavrikakis. Quattro volti perseguitati dalla morte, a un soffio dal buttarsi alle spalle un passato che non che non passa, un ricordo doloroso che prende la forma di un incubo ricorrente. In Le ciel de Bay City la sua protagonista ebrea imparava a scuotersi di dosso il passato per restituirgli il suo giusto posto. Allo stesso modo qui Catherine Mavrikakis si immerge nelle contraddizioni di un Paese che glorifica la libertà e pratica la pena di morte. L'autrice è incredibilmente capace di far parlare gli uomini e le donne di questa storia piena di furore e di emozione, di mettere in luce le loro forze, la loro vergogna, la loro rabbia di fronte all'ingiustizia, il loro desiderio di farla finita. Catherine Mavrikakis propone un francese sottile che cambia a seconda dei narratori pur tenendo ferma una stessa domanda: è possibile addomesticare il dolore del ricordo?
Christine Ferniot, Lire, octobre 2012
Magnifico! Potente! Sconvolgente! Quattro personaggi, il ricordo, i non detti, la pena di morte. E il respiro di una grande romanziera
François Busnel, L’Express
Costruito intorno all'esecuzione di un assassino, un affascinante romanzo corale della canadese Catherine Mavrikakis. Parodia degli Stati Uniti allo sbando, Gli ultimi giorni di Smokey Nelson fanno sentire la cacofonia di un mondo, fino a ieri esaltato come geniale melting-pot, e oggi attaccato per la ghettizzazione delle sue comunità. Il romanzo di Catherine Mavrikakis descrivo in modo meraviglioso questa deriva dei mini-continenti. Ancor meglio: ne fa sentire la musica, mischiando il furore di Jimi Hendrix alle volute sapienti del jazz, e i duri canti degli evangelici alle ridicole e gioviali melodie di una pubblicità della Coca-Cola.
Catherine Simon, Le Monde des livres
Tra le righe le ferite e le cicatrici che solcano il volto dell'America. Quattro voci, quattro temperamenti (si potrebbe infatti anche riconoscere un elemento o una stagione in ciascuno dei quattro personaggi), una cosmogonia americana particolare, ma dalla risonanza universale. È un romanzo di strappi, che maltratta in modo insidioso il suo lettore e lo solletica come la coscienza sporca. Il romanzo di una persona che conosce bene l'America e che riesce a restituire in francese l'aspetto proteiforme della sua lingua. Una scrittura ricca di ritmo e di respiri diversi come la vita stessa, fatta di strade impreviste e smarrimenti, di momenti vuoti e tempi accelerati. Urla, silenzi, stupori, beatitudini davanti alla morte, la propria o quella degli altri.
Sophie Ehrsam, La Quinzaine littéraire
L'America, Honolulu, la Georgia, la Lousiana... Verrebbe da dire il Sud, un Sud che non ha ancora fatto i conti con i propri demoni.
Il fatto. Ripugnante: Smokey Nelson uccide una famiglia di bravi americani in carne negli anni Settanta. Trent'anni dopo, alla vigilia della sua esecuzione, si compiono tre destini sconvolti dall'omicidio: l'uomo scambiato per l'assassino, la donna che l'ha riconosciuto, il padre di una vittima. E l'omicida stesso, lucido, desideroso di farla finita, il cui intervento alla fine del romanzo colpisce come un uppercut e rinvia alla domanda imprescindibile della pena capitale.
Il verdetto. 336 pagine di page-turner. Il razzismo lampante del dopo Katrina, la crociata oscena degli evangelici, la follia consumistica, c'è tutto in questo libro, e tutto urla la verità.
Guy Gilsoul, Elle
Come reagiscono degli americani di religioni, colori e origini diversi quando sono personalmente messi di fronte all'esecuzione di un condannato alla pena capitale? In questo bel romanzo polifonico Catherine Mavrikakus entra nella testa di tre uomini e una donna direttamente implicati nel selvaggio omicidio di una famiglia.
I capitoli alternano prediche e ricordi. Catherine Mavrikakis seziona i sentimenti, i tentativi di ripartire e il riaffiorare dei ricordi provocato dall'annuncio dell'esecuzione dell'assassino, senza mai dare avvio a un dibattito teorico sulla fondatezza della pena di morte, ma dedicando il libro a “coloro che sono morti assassinati dai governi dei molti Stati dell’America”. La scrittura si piega alla personalità dei narratori e conduce il racconto verso una conclusione inaspettata. Un romanzo acuto che attraverso prospettive diverse e originali evoca l'atteggiamento della società americana di fronte alla pena di morte. Interessante e sconvolgente.
Sophie Guinard, Luxemburger Wort
Al penitenziario di Charlestown, negli Stati Uniti, stanno per giustiziare Smokey Nelson. Tre persone, di cui seguiamo il racconto separato, ricordano che quel criminale, al momento del suo quadruplice omicidio, ha incrociato le loro strade e sconvolto per sempre le loro vite. Danni collaterali che la morte di Nelson forse risolverà... o forse no. Un libro cupo in cui la vita di un uomo avrà delle conseguenze sui destini degli altri. Brillante e impressionante.
Marc Gadmer, Femme actuelle
Ecco un romanzo corale diverso dal solito. Tutti i personaggi sono perseguitati da una figura comune, quella di Smokey Nelson, un assassino, autore di un quadruplice omicidio, che attende da quasi vent'anni nel braccio della morte la data della sue esecuzione. Non si tratta tanto di condividere le riflessioni di Sydney, Pearl e Ray al momento dell'annuncio della vicina esecuzione di Smokey quanto di assistere alla disfatta di ciascuno di loro. Perché cosa resta dopo la morte di Smokey?
Psychologies, octobre 2012
Catherine Mavrikakis è una scrittrice coraggiosa e affronta senza scorciatoie gli argomenti più suscettibili. In questo romanzo polifonico i personaggi mettono in questione la legittimità della pena capitale e fanno emergere l'ambiguità di una nazione sempre alle prese con il fanatismo religioso e il razzismo. Gli ultimi giorni di Smokey Nelson sembra solo l'inizio di una lunga riflessione...
Olivia Mauriac, Madame Figaro pocket
Su diversi toni, beffardi, isterici o depressi, il carosello dell'America allo sfascio.
Claire Devarrieux, Libération, supplément Livres
Ognuno sulla sua isola. È con questa nota insulare che vive, naviga e muore (per quanto riguarda uno di loro) ognuno dei personaggi del romanzo di Catherine Mavrikakis. Ognuno solo al mondo nonostante tutto quel che lo lega agli altri.
Serge Airoldi, Le Matricule des anges
In un romanzo magistralmente costruito e realizzato, quattro personaggi espongono, ciascuno a sua volta, il loro rapporto con il crimine e rivelano un'America allo sbando: razzismo, violenza, crisi economica e povertà, estremismi religiosi... Questi quattro monologhi, dalle tonalità diverse, tracciano quattro vite, fatte da secreti, fallimenti, colpevolezze, confrontate a un triste destino. Un romanzo forte e intenso che scuote nel profondo.
Bo. et B. Bo., Notes bibliographiques
Gli ultimi giorni di Smokey Nelson, l'impressionante romanzo di Catherine Mavrikakis. Sono in quattro, da qualche parte in quel sud degli Stati Uniti che in fondo ha sempre creduto unicamente nella collera di Dio. Aspettano la morte. Da sempre, o meglio da quel mattino d'ottobre del 1989 in cui in un motel della periferia di Atlanta sono stati trovati i corpi senza vita e atrocemente mutilati di un padre, di una madre e dei loro due figli. Catherine Mavrikakis ci consegna una variazione viva e lirica sulla morte.
Olivier Mony, Livres Hebdo
La canadese Catherine Mavrikakis ci consegna un magnifico romanzo corale sull'America. Il ritratto che emerge di quest'America, che sta per applicare la pena di morte, è abbastanza cupo. Offre solo integralismo e precarietà, o il riparo nel consumismo. Il sogno americano è davvero morto.
Agnès Noël, Témoignage chrétien
Gli ultimi giorni di Smokey Nelson impone Catherine Mavrikakis come una delle grandi voci della letteratura americana contemporanea, capace di una lingua potente ed evocatrice. Non citerò Faulkner, né McCarthy o Capote per descrivere la sua scrittura, ma in realtà l'ho appena fatto.
Michel Edo (Librairie Lucioles à Vienne), Page des libraires
TRE VITE SPEZZATE INTORNO AD UN DELITTO
LA REPUBBLICA | 13 marzo 2016 | Susanna Nirenstein
Al centro di Gli ultimi giorni di Smokey Nelson, un omicidio del 1989, quando il giovane citato nel titolo massacra quattro persone, una coppia con due bambini, in un motel. Intorno, un coro a tre di chi da quell'assassinio è stato toccato da vicino, come un segno di Caino capace, capiremo man mano, di condizionare i destini. Siamo vent'anni dopo, e il primo a prendere la parola in un monologo disordinato e sincopato è Sydney, un quarantenne nero come l'assassino che a quell'epoca fu scambiato per il massacratore e messo in galera per alcuni mesi,- fino a che Pearl Wanabee, la donna che scoprì la scena del crimine dopo aver parlato, meglio, vagamente flirtato con Smokey, non riconobbe il vero criminale scagionando il ragazzo finito in carcere. Sydney parla, straparla, si identifica con Jimi Hendrix, sogna, dopo l'uragano Katherina, di poter tornare dai genitori e suonare in qualche complesso anche se non si sente un genio della musica. Quello strano episodio dello scambio di persona lo ha segnato, farnetica anche di quello, soprattutto ora che annunciano alla radio l'esecuzione di Smokey Nelson. Già, l'esecuzione di Smokey. È questo il cuore del romanzo più della strage in sé, perché Catherine Mavrikakis, la nostra scrittrice nata a Chicago nel 1961 da madre francese e padre greco, danza con furore contro la pena di morte dedicando il libro «a coloro che sono morti assassinati dai governi dei molti Stati d'America». Tra lei e Ray Ryan,il padre della donna trucidata, che, con la voce di un Dio supervendicativo in testa, va ad assistere alla morte di Smokey, non c'è nessuna empatia. Che troviamo invece mentre dipinge il delirante Sidney in viaggio verso il niente, o l'insicura Pearl, ancora oggi emozionata da quella sigaretta fumata insieme all'omicida, quasi volesse a tutti i costi recuperare i palpiti più contraddittori della sua vita, il lato umano di ogni persona, anche la peggiore. E quando l'appuntamento con la morte si avvicina trascinando il buio dietro di sé, quando Smokey consuma l'ultimo pasto senza saper pensare a niente di significativo, senza sensi di colpa, Catherine Mavrikakis ripete fortissimamente il suo "no".
NEL BRACCIO DELLA MORTE TRA GLI ECHI DI McCARTHY
IL FATTO QUOTIDIANO | 17 febbraio 2016 | Angelo Molica Franco
Per il lettore che abbia alle spalle i romanzi di Cormac McCarthy è insieme un atto dovuto e un piacere leggere Gli ultimi giorni di Smokey Nelson della scrittrice americana ma di espressione francese Catherine Mavrikakis. L'autrice raccoglie in eredità da McCarthy il senso concreto della violenza casuale e crea un romanzo tonico e perturbante. Il protagonista eponimo, Smokey Nelson, viene condannato a morte per aver massacrato un'intera famiglia in un motel di Atlanta alla fine degli Anni 80. Il momento dell'esecuzione della pena giunge dopo vent'anni. A raccontare l'attesa di questa morte, le voci di tre personaggi che da Smokey Nelson sono stati solo sfiorati, eppure a loro modo inesorabilmente spezzati: Sydney Blanchard, musicista fallito e fan di Jimi Hendrix, che all'inizio delle indagini era stato arrestato al posto di Nelson; Pearl Wanabee, la responsabile del motel dove accadde l'omicidio, che ancora ignara del massacro avvenuto aveva conversato nel parcheggio con Nelson; infine Ray Ryan, il padre della donna uccisa insieme al marito e ai figli, che si è rifugiato nella fede. Con l'allarme tipico della buona letteratura, Mavrikakis rompe lo schema romantico dell'attesa d'amore, svelando al lettore che si può attendere anche la morte con la medesima e rovinosa fiducia.
UNA STORIA DI COLPE E INGIUSTIZIE
L'ESPRESSO | 4 marzo 2016 | Fabio Gambaro
È un'America di frustrazioni e ingiustizie, quella raccontata da Catherine Mavrikakis, scrittrice franco-greca residente in Canada. Una terra dominata da una violenza senza senso che si abbatte su un mondo di sconfitti lontani anni luce dalle illusioni del sogno americano. "Gli ultimi giorni di Smokey Nelson" (traduzione di Silvia Turato, Keller pp. 282) è un romanzo intenso e drammatico che, alternando i punti di vista di quattro personaggi, ricostruisce a posteriori la strage di una famiglia in un motel alla periferia di Atlanta. Più che alla dinamica dei fatti, però, la scrittrice s'interessa alle tracce lasciate dalla violenza nelle vite di chi con essa ha dovuto confrontarsi. A cominciare da Smokey Nelson, l'autore del massacro, la cui condanna a morte sta per essere eseguita a vent'anni di distanza. Ad assistere all'esecuzione c'è Ray, il padre di una delle vittime, un uomo ossessionato dalla voce di un dio vendicativo in guerra contro un mondo dominato dal male. Le loro storie s'intrecciano a quelle di Sydney, all'epoca erroneamente accusato dell'omicidio, e di Pearl, che incontrò per caso l'assassino subito dopo la strage. E che da allora vive sentendosi in colpa per il momento di leggerezza condiviso inconsapevolmente con un mostro dotato di fascino. Catherine Mavrikakis ne ricostruisce abilmente i percorsi tortuosi e sofferti, ricordandoci che gli uomini, «malgrado la loro volontà, sono sottomessi a influenze, umori, casualità che sfuggono» al loro controllo. Questo è il loro destino, fatto di spettri, rimorsi e sensi di colpa.
LA PENA DI MORTE CONDANNA SOPRATTUTTO GLI INNOCENTI
IL GIORNALE | 12 marzo 2016 | Gian Paolo Serino
Un cameriere nero con la passione sfrenata per Jimi Hendrix; una donna delle pulizie che troppo spesso «si accontenta di quel che arriva»; un padre devastato dal dolore che si esprime come un telepredicatore in preda a una visione; un uomo di 40 anni che si trova a poche ore dall'esser giustiziato per aver ucciso una famiglia in un motel di un paesino dell'America più profonda negli anni '70, quando era appena maggiorenne. Sono i protagonisti e le voci narranti che si alternano in Gli ultimi giorni di Smokey Nelson di Catherine Mavrikakis, nata a Chicago nel 1960 da madre francese e padre greco. In questo romanzo, che sin dal titolo rimanda a Gli ultimi giorni di un condannato a morte di Victor Hugo, l'autrice affronta il tema della pena capitale (ancora legge in 37 Stati su 50 degli Usa), ma soprattutto si confronta con la giustizia in un Paese dove «il sogno americano non è più per niente accessibile», dove «la televisione è la vostra messa», dove la religione spesso coincide con il fanatismo e dove il meltingpot non sempre è sinonimo di integrazione. Ognuno dei quattro protagonisti interpreta un aspetto della società americana: il cameriere è stato il primo accusato dell'eccidio, ma si è trattato di uno dei molti errori giudiziari che insanguinano i talk show prima che le aule di tribunali; la cameriera, che proviene dalle Hawaii di Obama, diventa il simbolo di una vita sbiadita che sembra ritrovare i propri colori solo davanti all'«umanità» del Male: è stata lei a ritrovare i corpi dei due genitori e dei due bimbi nella camera del motel dove lavorava e l'unica ad aver parlato, fumando anche due sigarette, con il vero assassino; il padre di una delle vittime sembra trovare nella pena di morte il segno che Dio esiste e rappresenta al meglio ciò che la stessa scrittrice ha già affrontato in Flower of Spirit (inedito in Italia), un lungo soliloquio, un urlo di dolore delirante che diventa la metafora su come sia possibile affrancarsi dalla morte che ci circonda. E poi Smokey Nelson, il protagonista: può davvero essere umano un uomo se viene giustiziato dopo vent'anni di attesa nel braccio della morte? Ormai è convinto che «la vita non è niente» e i suoi sogni di gioventù si sono trasformati in quelli dell'americano medio. Gli ultimi giorni di Smokey Nelson (Keller editore, pagg. 277, euro 16,50, traduzione di Silvia Turato) è un affresco molto ben riuscito sulle nostre contraddizioni e un romanzo ottimamente congegnato, quasi una sinfonia di voci che hanno il merito di non diventare mai coro.
GLI ULTIMI GIORNI DI UN CONDANNATO A MORTE
HUFFINGTONPOST | 25 febbraio 2016 | Giuseppe Fantasia
"Un uomo è condannato ed è la cadenza idiota dei giorni che si susseguono e si assomigliano che, all'improvviso, fa capolino e invade le celle e gli spazi comuni. L'inumanità della situazione diventa d'un tratto insopportabile. In prigione si è allora pronti a tutto".
Smokey Nelson ha un solo desiderio: morire senza ricordi, rimorsi o rimpianti, "completamente puro, completamente bianco", pur essendo un criminale "dal corpo e dall'anima neri e sporchi", un vero ragazzo del Sud, estraneo al freddo, che ha conosciuto solo il caldo, quello spietato, muschiato, quasi animale di New Orleans" - la città natale che a due anni ha lasciato con la madre, la zia e sua sorella maggiore Martha - e poi più tardi quello ovattato e di un bianco violento dell'Alabama, dove ha vissuto fino a diciannove anni, prima di essere incarcerato e condannato a morte dallo Stato della Georgia ("un luogo benedetto sul quale Dio e il governatore dello Stato vegliano, ciascuno a suo modo, con fermezza ed indulgenza") per un quadruplice omicidio volontario e premeditato. La sua colpa è di aver ucciso una famiglia di americani negli anni Settanta, un crimine efferato e selvaggio che ha coinvolto anche due bambini, un orrendo episodio di sangue che ha riempito le pagine tutti i giornali del Paese ed occupato i principali programmi tv per molto tempo. Ha commesso un quadruplice omicidio, ne è consapevole, ma quei crimini gli sono sempre sembrati lontanissimi (probabilmente, è la sua maniera per continuare a sopravvivere) e solo di rado gli hanno occupato i pensieri. Del resto, in prigione i ricordi sono troppo personali e non servono a granché. Aspetta l'esecuzione, ma è lucido ed è desideroso di farla finita, non ha paura di morire perché la sua morte gli sembra "impensabile e irrazionale", decisa da un'autorità misteriosa, ma dopo quei diciannove anni trascorsi lì dentro, non certo nelle migliori condizioni, è sempre più convinto che "la vita non è niente". Come ultimo pasto, ha chiesto bistecca e baked potatoes ricoperte di burro, "il simbolo del successo", il pranzo dell'americano medio, bianco o nero che sia, un'eccezione per uno della sua classe sociale abituato a mangiare perlopiù pollo fritto o un miscuglio di fagioli secchi e fave e a bere coca cola senza limiti, come fosse acqua. Sono passati trent'anni da quel bagno di sangue e adesso, alla vigilia della sua esecuzione, si compiono tre destini sconvolti in maniera diversa dall'omicidio: Sydney Blanchard - l'uomo scambiato per l'assassino solo perché nero come lui - Pearl Watanabe, la donna hawaiana che l'ha riconosciuto e che all'epoca dei fatti aveva scoperto i corpi uccisi e scambiato due chiacchiere con Smokey nel parcheggio del motel - e Ray Ryan - il padre di una vittima, in dialogo diretto con un Dio che gli si rivolge per ricordargli che le sue pene sono finite. Di tutti loro, assassino compreso, ci racconta con grande abilità e partecipazione Catherine Mavrikakis nel suo nuovo romanzo, Gli ultimi giorni di Smokey Nelson (Les Derniers Jours de Smokey Nelson), in uscita domani per Keller Editore nella traduzione di Silvia Turato. Niente è tralasciato da questa scrittrice metà francese e metà greca, già autrice di un saggio e di diversi romanzi di successo in patria: in ogni capitolo c'è un personaggio legato a suo modo alla vicenda con i suoi punti di vista, diversi ma sempre giustificati. Le parole della Mavrikakis scorrono velocemente come gli anni trascorsi da Nelson in carcere, tristi e sempre uguali, mentre, nel frattempo all'esterno, il mondo è continuato ad andare avanti con i suoi eccessi e difetti, i suoi conflitti e i suoi eventi piacevoli. Il linguaggio è crudo e diretto, la disperazione e l'amarezza del vivere sono continue e presenti in ogni riga, anche quando ci parla di Nelson, che non rilascia alcuna dichiarazione e che vorrebbe farla finita il prima possibile. Gli ultimi giorni di Smokey Nelson è uno di quei romanzi corali in cui ogni voce ti conquista, capace di evidenziare, ognuno a suo modo, l'altra faccia dell'America, quella emarginata e abbandonata a se stessa, con comunità molto numerose ma sempre più emarginate, una realtà che in pochi conoscono ma che in tanti sono costretti a vivere. Un romanzo potente e affascinante, vi conquisterà.
CATHERINE MAVRIKAKIS. GLI ULTIMI GIORNI DI SMOKEY NELSON
INTERNAZIONALE | 11 marzo 2016 | Marine Landrot (Télérama)
Catherine Mavrikakis è franco-greca ma la sua penna è molto statunitense. Leggendo questo romanzo, un francofono ha l’impressione di sentire il passo dei migliori traduttori della letteratura d’oltreoceano, eppure non è così. Nata a Chicago, questa scrittrice scrive in francese, in una lingua di volta in volta gutturale, trattenuta, esaltata, fattuale. Sono aggettivi che ben si applicano ai quattro personaggi di origini diverse che negli Ultimi giorni di Smokey Nelson fanno sentire la loro voce su uno stesso evento: l’assassinio di una coppia con due bambini, avvenuto in un motel nella periferia di Atlanta anni prima. Sidney Blanchard intona le prime note di questo racconto corale. Accusato ingiustamente del delitto, poi scagionato dopo aver scontato una lunga pena in carcere, monologa sulla tomba di Jimi Hendrix con parole sferzanti. Poi si inserisce dolcemente il lamento di Pearl Watanabe. È una vecchia signora sola che nel momento in cui ritrova la figlia sente riaffiorare i suoi ricordi di testimone del delitto e si arrovella intorno a una domanda senza risposta: perché l’assassino, che ha incrociato in un parcheggio, l’ha risparmiata? La terza voce proviene dalla fede allucinata di Ray Ryan, padre di una delle vittime, che lascia parlare Dio per lui. È qui che la scrittura di Catherine Mavrikakis acquista tutta la sua ricchezza e fa sgorgare immagini potenti. Infine il vero omicida impone il silenzio, poche ore prima della sua esecuzione. Medita su una frase sentita da un compagno di prigione: “Si muore sempre come se non si fosse mai vissuti”. Punto comune dei quattro è una verginità di fronte alla morte che dà al libro una luce unica.
PREZZO: €18,00
BROSSURA | PP. 352 | COLLANA RAZIONE K
Traduzione dal polacco Marco Vanchetti
VINCITORE ENGLISH PEN AWARD
Il viaggio di Hugo-Bader nella realtà sospesa e desolata della Kolyma è un pellegrinaggio come nessun altro. Le sue crude pagine hanno un effetto travolgente sul lettore. In un luogo dove il freddo è micidiale, ogni occasionale incontro è allo stesso tempo un confronto morale con quella che è l’eredità sovietica in termini di brutalità e perdita, e una fonte di calore primitivo. I diari della Kolyma è un reportage potente e coraggioso, spesso divertente, sempre implacabile nel suo rapporto con il dolore umano. RACHEL POLONSKY
Dall’autore del premiato Febbre bianca (traduzione Marzena Borejczuk, Keller) arriva I diari della Kolyma, viaggio in una delle ultime badland rimaste al mondo, un luogo pieno di fantasmi, gulag e sopravvissuti, radunatisi tutti – sembra – lungo i 2000 chilometri dell’autostrada della Kolyma. Bader ascolta e ci riporta gli incantevoli, talvolta devastanti, racconti che hanno condotto i suoi “compagni di viaggio” in questa terra “benedetta”.
Si tratta di un libro sui discendenti dei prigionieri che riescono a malapena a vivere, dei truffatori, dei veterani, dei commercianti di ferro, dei politici corrotti e della criminalità organizzata…
Le storie narrano di figli dati via, di mariti che ricompaiono dopo decenni, di studiosi che ora sopravvivono andando alla ricerca di funghi e bacche, di scultori che raccolgono le teste sparse delle statue di Lenin, di minatori che scavano nelle fosse comuni cercando oro e di tutti i tossicodipendenti, i condannati, gli eroi decaduti e anche degli sportivi che, in fuga da tutto, finiscono nella regione più remota della Russia e forse del mondo…
AUTORE
Jacek Hugo-Bader è nato a Sochaczew nel 1957, ha una moglie, due figli e due cani. è stato insegnante in una scuola per ragazzi in difficolta, ha lavorato in un negozio di alimentari, caricato e scaricato treni, è stato pesatore in un punto vendita di maiali, consulente matrimoniale e ha gestito una società di distribuzione. Dal 1991 è reporter per la «Gazeta Wyborcza», il piu importante quotidiano polacco.
Ha scritto numerosi reportage sull’ex Unione Sovietica, sull’Asia centrale, Cina, Tibet e Mongolia e vinto prestigiosi premi come il Grand Press nel 1999 e nel 2003, il Bursztynowego Motyla nel 2010 oltre all’English Pen Award proprio con I diari della Kolyma. Sempre per Keller è uscito in Italia Febbre bianca. Un viaggio nel cuore ghiacciato della Siberia (trad. M. Borejczuk).
STAMPA
Un libro potente scritto da quello che sembra essere l’erede naturale di Ryszard Kapuscinski. Condé Nast Traveler
"Uno dei libri di viaggio più memorabili che abbia letto, con storie a volte esilaranti e a volte quasi insopportabilmente tristi, storie di morte, coraggio, crudeltà e vodka. Jacek Hugo-Bader ha viaggiato in alcune delle più strane e più remote propaggini della Siberia, ma quello che ha riportato sono storie dei confini più remoti dello spirito umano. Magnifico!
Andrew Brown THE GUARDIAN
LA REPUBBLICA | D LUI | APRILE 2018
I diari della Kolyma
di Francesca Frediani
Viaggio in una delle rare badland rimaste al mondo, un luogo di fantasmi, gulag e sopravvissuti. Radunati in 2000 km di strada.
Dal porto di Magadan, sul mare di Ochotsk, estremo oriente russo, alla Jacuzia. È la strada della Kolyma: oltre 2 mila chilometri, quasi un terzo dell'intera Europa, “il più lungo cimitero al mondo”, un percorso disseminato di lager stalinisti. Terra di eremiti, cercatori d'oro, pescatori di salmone, avventurieri, “meno turisti che al Polo Nord o sul monte Everest”.
L'ha percorsa tutta nel 2010 il reporter polacco Jacek hugo-Bader...
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IL GIORNALE | 31/3/2018
L'inferno della Kolyma è (quasi) ancora un gulag di Osvaldo Spadaro
Nei luoghi dove il regime sovietico internava i suoi oppositori le miniere somigliano ai "lager" di Stalin.
Nella Kolyma l'inverno dura nove mesi, il resto è estate. Tre mesi in cui se scavi un metro sotto terra trovi il permafrost. Novanta giorni in cui il terreno si scioglie e diventa palude, l'ambiente naturale passa da tremendo e inospitale a semplicemente pessimo...
Leggi articolo e intervista
PREZZO: €15,50
DATA USCITA: GENNAIO 2017
BROSSURA | PP. 224 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL TEDESCO ROBERTA GADO
Pubblicato in 14 lingue
Un libro con le pagine bianche. Una tradizione di famiglia a cui non ci si può sottrarre: dai dodici anni al giorno della morte quel libro va scritto ogni sera e nessuno lo può leggere... Un grande romanzo sulla memoria, sui libri e la letteratura mentre l'Europa vive i cambiamenti epocali del Novecento.
Dopo “Il sifone blu” prosegue la scoperta di Urs Widmer tra i più grandi esponenti della letteratura tedesca del Novecento.
Urs Widmer trasforma il padre in un personaggio letterario indimenticabile - Martin Ebel / Tages-Anzeiger, Zurigo.
Un successore svizzero di classe mondiale di Frisch e Dürrenmatt. Die Welt
Uno dei migliori esponenti della letteratura svizzera. Le Monde
Urs Widmer (1938-2014), figlio del traduttore e critico letterario Walter Widmer, studiò germanistica e romanistica a Basilea, Montpellier e Parigi, conseguendo il dottorato nel 1966 con una tesi sulla letteratura tedesca del dopoguerra. Prima di dedicarsi interamente alla scrittura lavorò per brevi periodi come editor presso importanti case editrici. Oltre che scrittore fu docente universitario, traduttore (Joseph Conrad, Raymond Chandler) e autore teatrale di successo.
Le sue numerose opere sono tradotte in una trentina di lingue e fu insignito di vari premi.
PREMI
›Karl–Sczuka–Preis‹ des Südwestfunks Baden–Baden, 1974
›Hörspielpreis‹ der Kriegsblinden für Fernsehabend, 1976
›Manuskripte-Preis‹ für das Forum Stadtpark des Landes Steiermark, 1983
Preis der Schweizerischen Schillerstiftung für sein Gesamtwerk, 1985
Ehrengabe des Kantons Zürich für Der Kongreß der Paläolepidopterologen, 1989
›Basler Literaturpreis‹ für sein Gesamtwerk, 1989
Preis des Südwestfunk–Literaturmagazins für die Erzählung ›Der blaue Siphon‹, 1992
Anerkennungsgabe der Stadt Zürich für ›Der blaue Siphon‹, 1992
Aufnahme in die Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung, 1995
›Literaturpreis der Stadt Zürich‹ für sein Gesamtwerk, 1996
Autor des Jahres der Zeitschrift ›Theater heute‹ für ›Top Dogs‹, 1997
›3sat-Innovationspreis‹ für das Theaterstück ›Top Dogs‹, 1997
›Mülheimer Dramatikerpreis‹ für ›Top Dogs‹, 1997
›Kunstpreis‹ der Gemeinde Zollikon für sein Gesamtwerk, 1997
›Heimito von Doderer Literaturpreis‹ für sein Gesamtwerk, 1998
Aufnahme in die Akademie der Künste Berlin–Brandenburg, 1999
›Kulturpreis‹ der Gemeinde Riehen für sein Gesamtwerk, 1999
Ehrengabe des Kantons Zürich im Bereich Literatur, 2000
Werkbeitrag der ProHelvetia, 2000
›Franz-Nabl-Preis‹ der Stadt Graz für sein Gesamtwerk, 2001
›Bertolt-Brecht-Literaturpreis‹ der Stadt Augsburg für sein Gesamtwerk, 2001
›Großer Literaturpreis‹ in München von der Jury der Bayerischen Akademie der Schönen Künste für das Gesamtwerk des »hochrangigen Stilisten«, 2002
›Prix des Auditeurs‹ von Radio Suisse Romande anlässlich des Salon International du Livre et de la Presse in Genf für Der Geliebte der Mutter, 2002
›Mainzer Stadtschreiber-Preis‹ für sein Gesamtwerk, 2003
Preis der Schweizerischen Schillerstiftung für sein Gesamtwerk, 2004
Anerkennungsgabe der Stadt Zürich für ›Das Buch des Vaters‹, 2004
Juror des ›Italo-Svevo-Preises‹, 2006
Gastdozent für Poetik an der Goethe-Universität Frankfurt, 2007
›Friedrich-Hölderlin-Preis‹ der Stadt Bad Homburg für sein ›in vier Jahrzehnten gewachsenes Werk‹, 2007
›Prix Littéraire Lipp Suisse‹ für die französische Ausgabe von ›Das Buch des Vaters‹, 2007
Anerkennungsgabe der Stadt Zürich für ›Herr Adamson‹, 2009
Ehrengabe des Kantons Zürich im Bereich Literatur, 2010
Anerkennungsgabe der Stadt Zürich für ›Reise an den Rand des Universums‹, 2013
›Schweizer Literaturpreis‹ des Bundesamts für Kultur für ›Reise an den Rand des Universums‹, 2014
›Jakob-Wassermann-Literaturpreis‹ der Stadt Fürth für sein Gesamtwerk, 2014
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PREZZO: €19,00
BROSSURA | PP. 544 | COLLANA PASSI
Traduzione dal tedesco Scilla Forti
“Bere l’acqua dall’incavo della mano è il primo gesto che ho ereditato da mio padre...”
Un bambino senza parole, la grande passione per la musica, un padre che trova la chiave giusta per riportarlo a parlare. È solo l'inizio di un grande viaggio. Di una piccola meraviglia...
Ortheil è uno degli autori più riflessivi e amati della letteratura tedesca contemporanea, capace di toccare le corde più intime di ogni lettore.
Johannes è un bambino come tanti altri. Anzi no, come pochi altri. Non parla ma non è muto. Semplicemente è nato e cresciuto con una madre che per dolore – la morte dei figli durante e dopo la Seconda guerra mondiale – ha rifiutato le parole.
Eppure la vita bussa prepotentemente al suo cuore: ha il suono dell’amato pianoforte e l’aspetto di un padre amorevole che comincerà con lui una paziente formazione a contatto con la natura per insegnargli a percepire immagini e impressioni, disegnarle e assegnare a ciascuna un nome. Piano piano il muro del silenzio si incrina fino a sgretolarsi e Johannes è finalmente libero di seguire i propri desideri.
Il grande amore per la musica lo porta a Roma per diventare un pianista, ma ben presto capisce che anche il fallimento appartiene alla vita. Una volta tornato in Germania, uno dei suoi vecchi insegnanti lo esorta a confrontarsi con la scrittura e sarà ancora Roma, dopo tre decenni, il luogo dove mettersi alla prova e dove scrivere e ripensare alla propria giovinezza, al primo amore, alle amicizie, ai primi successi e alle delusioni... così anche le immagini e le parole disegnate sui suoi quaderni durante l’infanzia diventeranno più nitide e comprensibili.
Il suono della vita è un romanzo travolgente sul proprio posto nel mondo, sui sentimenti, sulla forza della musica e della scrittura, sulla loro potenza inventiva e la capacità di stravolgere le barriere fisiche e sociali. Ortheil è uno degli autori più amati, letti e premiati della Germania. Uno scrittore in grado di raccontarci la vita come nessun altro.
AUTORE
Hanns-Josef Ortheil è nato a Colonia nel 1951. È scrittore, pianista e professore di scrittura creativa e giornalismo culturale presso l’Università di Hildesheim. Da molti anni è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura tedesca contemporanea. È stato insignito di numerosi premi per le sue opere, tra cui il Thomas-Mann-Preis, il Nicolas-Born-Preis, lo Stefan-Andres-Preis e l’Hannelore-Greve-Literaturpreis. I suoi romanzi sono stati tradotti in più di venti lingue.
STAMPA
A differenza della maggior parte dei suoi colleghi scrittori, Ortheil non ha paura del lieto fine e del grande amore. Un romanzo confortante.
FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG
Un libro travolgente che ho letteralmente divorato.
GIOVANNI DI LORENZO, 3 NACH 9
PREMI E RICONOSCIMENTI
Aspekte-Literaturpreis, 1979
Sonderpreis der Lektoren beim Ingeborg Bachmann-Wettbewerb in Klagenfurt, 1982
Förderpreis des Landes Nordrhein-Westfalen, 1982
Literaturpreis der Landeshauptstadt Stuttgart, 1989
Villa Massimo-Stipendium, 1991
Brandenburger Literaturpreis, 2000
Stadtschreiber von Mainz, 2000
Thomas-Mann-Preis der Stadt Lübeck, 2002
Georg-K.-Glaser-Preis, 2004
Literarischer Ehrenbürger der Stadt Venedig, 2005
Koblenzer Literaturpreis, 2006
Nicolas-Born-Preis des Landes Niedersachsen, 2007
Elisabeth-Langgässer-Literaturpreis der Stadt, 2009
Stefan-Andres-Preis der Stadt Schweich, 2013
Hannelore-Greve-Literaturpreis der Hamburger Autorenvereinigung, 2016
UN INVERNO DA SOLO SULLE MONTAGNE ROCCIOSE
PREZZO: €16,00
DATA USCITA: marzo 2017
BROSSURA | PP. 256 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DALL'AMERICANO TATIANA MORONI
PREZZO: €15,60
DATA USCITA: GENNAIO 2014
BROSSURA | PP. 416 | COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL CASTIGLIANO ANGELA LORENZINI
La critica
«Ho letto questo romanzo tutto d'un fiato e mi ha stregato» ALMUDENA GRANDES
«Uno dei nomi più promettenti della narrativa di questi anni» EL MUNDO
«Scoprire uno scrittore di gran valore è una gratificazione impagabile» EL CULTURAL
«Un fregio magnifico nel quale vengono ritratti decine di personaggi. Questo romanzo storico è scritto con una prosa dal ritmo perfetto, sottile, ironica e intelligente...» EL PAIS
«La trilogia dantesca di Esquivias è una lettura imprescindibile» DIARIO
«Oscar Esquivias è il migliore dei nostri giovani scrittori e le sue opere sono molto più di un recupero romanzato della storia, i suoi romanzi sono un viaggio dantesco» JAVIER RIOYO
Il film
Il regista Antonio Giménez-Rico sta lavorando alla pellicola ispirata a Inquietudine in Paradiso.
PREZZO: €15,50
DATA USCITA: LUGLIO 2016
BROSSURA | PP. 224 | COLLANA VIE
TRADUZIONE DAL CROATO ESTERA MIOCIĆ
Slavenka Drakulić
Slavenka Drakulić è nata a Rijeka nel 1949. Scrittrice, giornalista e saggista, i suoi libri sono stati tradotti e pubblicati in diverse lingue. In Italia è nota sin dagli anni Novanta grazie alla pubblicazione di alcune sue opere sul mondo comunista e post-comunista come Balkan Express e Caffè Europa (Il Saggiatore), nonché di romanzi come Pelle di marmo (Giunti), Il gusto di un uomo (Il Saggiatore), Come se io non ci fossi (Rizzoli), Il letto di Frida (Elliot). Nel 2004 l’autrice ha ricevuto il premio Award for European Understanding della Fiera del libro di Leipzig. Vive in Svezia e Croazia.
PREZZO: €18,50
BROSSURA | PP. 416 | COLLANA PASSI
Traduzione dal ceco
Laura Angeloni
PREMIO JOSEF ŠKVORECKÝ
PREMIO BESTSELLER CECO
MAGNESIA LITERA, PREMIO DEI LETTORI
CZECH BOOK AWARD, PREMIO DEI LETTORI
TRAMA
Sulle montagne dei Carpazi Bianchi, nella comunità di Žítková, vive da tempo immemorabile una stirpe di donne dotate di poteri eccezionali. Guaritrici, preveggenti, tramandano la loro arte di madre in figlia e vengono chiamate “dee”.
Dora Idesová è l’ultima di questa discendenza, ma non ha ereditato nessuna arte. Rimasta orfana è passata alle cure di zia Surmena fino a quando anche quest’ultima scompare dietro le mura di una clinica psichiatrica. Dora finisce così in collegio, cresce, studia Etnografia e trova lavoro presso l’Accademia delle Scienze di Brno.
Quando negli anni Novanta vengono resi pubblici gli archivi della polizia segreta, Dora – che nel frattempo sta scrivendo un saggio riguardante le dee di Žítková – inizia le sue ricerche e si imbatte nel dossier sulla zia, la dea Surmena...
Ben presto quella di Dora si trasforma da indagine di studio in un vero e proprio viaggio nelle ombre e nei segreti del passato. Integrando informazioni e notizie storiche con i racconti delle ultime dee e degli abitanti di Žítková, Dora riesce a ricostruire il tragico destino di tutta la sua famiglia, un destino legato a un’antica maledizione, ma anche intrecciato alle vicende che hanno segnato il Paese e che hanno messo i poteri delle dee al centro degli interessi dei nazisti prima e dei comunisti poi.
Un destino cui nemmeno Dora riuscirà a sfuggire…
Romanzo storico, thriller, esplorazione etnografica, indagine sulla magia, affresco epocale e ricerca delle radici, L’eredità delle dee è stato e continua a essere un caso letterario unico nella letteratura ceca conquistando lettori e critici tanto da vendere, solo in Repubblica Ceca, 200 mila copie. Il romanzo è tradotto in quindici lingue.
STAMPA
Un romanzo sulle donne e la loro fede nelle forze della natura, nel potere curativo della speranza, ma anche sulla solitudine, disperazione, crudeltà e vendetta. L’eredità delle dee è uno dei romanzi più interessanti degli ultimi anni in Repubblica Ceca.
VERONIKA JURCOVÁ, KULTURA21
L’uscita de L’eredità delle dee era stata annunciata come un caso letterario. E, tanto per cominciare, possiamo dire che le attese non sono state deluse. La storia è composta in modo magistrale, contiene diversi livelli stilistici che via via si intrecciano in un unico grande affresco. Ci dimostra che le vite non devono per forza essere banali e noiose e che contesti all’apparenza ordinari possono nascondere grandi storie.
PAVEL KOTRLA, TÝDENÍK ROZHLAS
Tučková ha scritto una storia incantevole ed emozionante che pone una serie di domande sulle nostre idee passate e presenti.
MARTINA WINKLER, ZEITGESCHICHTE
Una miscela magistrale di realtà e finzione
DER STANDARD
Un capolavoro
PRAGER ZEITUNG
ESTRATTO DALLA QUARTA
«Bene, allora aspetta» sospirò Irma. «Prima prendi un po’ di tè e versane anche a me. È di nove erbe diverse, ti farà bene. O forse dovrei darti il prezzemolo dell’amore?» si ravvivò presto. «Per aiutarti a trovare un uomo. Vuoi che ti legga la cera? Ormai posso leggertela solo io, non lo sa fare più nessuno, approfittane finché sei in tempo. Beh, non mi guardare così, dovresti essere sposata da un pezzo ormai. Vediamo chi è il prescelto che ti sta aspettando» disse Irma con lo sguardo burlone. Dora sentì il tè zuccherato diventare amaro. «Prima mi racconti di Mahdalka e di Fuksena!» la pregò.
AUTORE
Scrittrice, giornalista, curatrice di mostre e autrice di opere teatrali, Kateřina Tučková (1980) si è laureata in Storia dell’Arte e Boemistica all’università FF MU di Brno e ha conseguito un dottorato in Storia dell’Arte presso l’università Karlová di Praga. Già autrice di varie pubblicazioni specialistiche in ambito artistico, si impone sulla scena letteraria ceca con il romanzo Vyhnání Gerty Schnirch (L’espulsione di Gerta Schnirch) del 2009, vincendo il premio Magnesia Litera 2010 (Categoria Premio dei Lettori) e guadagnando la candidatura ai premi Josef Škvorecký e Jíří Orten.
L’eredità delle dee è uno dei libri più venduti in assoluto nella Repubblica Ceca. È stato tradotto in quindici lingue.
PREZZO: €18,00
BROSSURA | PP. 416| COLLANA PASSI
TRADUZIONE DAL RUSSO ROSA MAURO
AUTORE
Andrei Kurkov nasce il 23 aprile 1961 in un paese dell’area di Leningrado. Nel 1983 si laurea all’Accademia pedagogica di lingue straniere di Kiev, dove vive tuttora. È autore ucraino che scrive in russo. Kurkov si dedica alla scrittura fin da piccolissimo e ha un hobby particolare, collezionare cactus: a 12 anni possiede la settima collezione di cactus dell’Ucraina. Per un periodo lavora come giornalista, presta il servizio militare a Odessa e poi si occupa di cinema, sceneggiature e libri. È autore di numerosi romanzi e volumi per bambini tradotti in decine di lingue. Per i tipi della Keller editore ha pubblicato un importante reportage, Diari ucraini e il romanzo Il vero controllore del popolo.
IN QUARTA DI COPERTINA
«Banov adorava quelle serate autunnali sul tetto, e quanto più erano fredde e ventose, tanto più gli pareva gustoso il tè; in quei momenti, oltre a scaldarsi con la bevanda, l’organismo si permeava di una forza e di un’energia insolite, piacevolissime. Si sarebbe detto addirittura che quella forza strabordasse da dentro Banov, il quale guardava le stradine vuote là sotto con lo sguardo del cacciatore, neanche cercasse di scovarvi dei nemici.
«Buono questo tè» commentò Karpovic, sorseggiando dalla tazza.
Banov assentì.
«Bevo sempre il tè» disse questi vago, come perso nel vuoto. «E dimmi, come sta il Sognatore del Cremlino?»
«Bene. L’ho visto proprio stamattina. Se ne stava seduto a scaldarsi al solicello e sognava ad alta voce…»
Divertente e lieve: una cartolina ricordo da una terra straniera… DER SPIEGEL
Con la tipica satira Kurkov riunisce più storie in questo incantevole romanzo. DIE PRESSE
LA COPERTINA
ALTRI LIBRI DI ANDREI KURKOV
BONIFICO BANCARIO | BANCOMAT | IN CONTRASSEGNO
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Benvenuti alla pagina blog della Keller.
Da editore di confine non potevamo che chiamarlo SUL CONFINE e inserirci i temi a noi più cari. In questa pagina trovate una selezione di articoli e curiosità. Se vuoi di più seguici alla pagina web sulconfine.it (a breve online)
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